Stabiliamo subito una verità essenziale: ogni icona in Renato Meneghetti è pittura ed ogni icona si trasforma in pittura, anche le cose apparentemente collocate in lontananza, ogni icona è attratta dalla pittura, ogni icona penetra nella pittura: tutto alla fine è riconducibile all’ineluttabile necessità dell’ars pingendi, come se sentimento e ragione, desiderio e volontà esercitassero una specie di diritto primitivo su quella materia incandescente che si confonde con la genesi stessa della vita.
Quando parliamo di pittura facciamo soprattutto riferimento all’abisso che nasconde e svela il segreto più intimo del dipingere: negazione ed affermazione degli opposti, congiunzione e separazione d’ogni elemento, d’ogni figura, perfino d’ogni strato di colore. Pittura è prima di tutto svelamento dell’ignoto. Il senso dell’oscurità ed il senso del sacro non sembrano molto lontani da questo abisso.
L’antico mito del Grande Ritorno, a cui gli eroi della mitologia ed anche gli artisti non sono mai stati insensibili, non fa parte soltanto d’una delle più complesse leggende dell’umanità, ma è, anche a livello inconscio, uno degli strumenti della conoscenza individuale, si confonde con il mito del sé e dell’altro che coesistono nell’interno di ogni personalità tormentata dall’ansia. E’ un’oracolante confessione del proprio destino. Potrebbe sembrare un problema puramente tecnico - trasformare tutto in pittura, anche il proprio pensiero, - in realtà è quasi una necessità biologica.
Naturalmente, è ben noto che Renato Meneghetti ha esteso la sua attività anche in altri campi ed in altre dimensioni: la fotografia, il collage, la scultura, il cinema, la musica, il teatro, l’architettura, il design, ma tutti questi elementi hanno origine dal cuore stesso della sua pittura, da una sua emanazione sotterranea, probabilmente anche da una sua storia interiore che sente il bisogno vitale di moltiplicare le sue immagini: tutto questo non è altro che un santuario della memoria. La pittura intesa come sacralità e come pratica quotidiana non si è mai molto allontanata da quelle radici, nonostante le loro trasformazioni e le loro metamorfosi, le ha però contornate, le ha accarezzate, le ha riplasmate, ha lasciato sulla loro dura e nitida superficie il proprio segno, ha inciso nella carne la propria impronta.
Dirò forse un paradosso: Renato Meneghetti non avrebbe mai potuto prendere possesso di questo suo mondo così molteplice, così fisico nella sua spiritualità, se non fosse stato prima di tutto pittore, per convinzione personale, per temperamento, per intuito, per spirito drammatico, se non pensasse anche attraverso il colore in maniera quasi ossessiva, se non fosse stato posseduto dal senso del dramma e della rappresentazione, se non avesse sentito la pittura come una espressione della sua coscienza, se la pittura in lui non fosse stata anche dubbio e consapevolezza, radice ed albero, serpente ed uomo, come speriamo di spiegare più oltre.
La pittura lo ha accompagnato per lunghi e sembra anche tormentati decenni. Anche quando poi si è dedicato ad altre esperienze e ad altre ricerche estetiche ha continuato a pensare, a sentire, a vedere e probabilmente a sognare come pittore, ma sia nei suoi lavori più antichi e sia in quelli degli ultimi anni, pur mutando soggetto, trama ed argomenti, non ha mai potuto disciogliere questa dicotomia di forme che tendono a diventare sempre un po’ altra cosa.
Sempre sono coesistite nella sua pittura molteplici dimensioni che possiamo identificare in due precise icone: il volto e la maschera, ma soprattutto il volto che prende le apparenze della maschera e la maschera che prende le apparenze del volto, una duplice immagine che proviene dall’abisso, dall’ascensione verso l’alto e dall’ascensione verso gli specchi oscuri della materia. La sua pittura è sempre un po’ costituita da strati che si sovrappongono, direi ancora meglio, si compone in ere geologiche: l’era dell’uomo e l’era d’un invisibile serpente.
Vi è spesso nei suoi quadri un punto di partenza, che potremmo definire come un momento di drammaticità. Si tratta in sostanza anche d’un percorso lirico o d’una rivelazione che stabilisce il grado di emotività ed il desiderio alla fine di raggruppare contemporaneamente sulla superficie stessa d’ogni suo lavoro pittura e poesia, pittura e musica, pittura e sogno, l’aspetto umano e l’aspetto soprannaturale. In questo tortuoso itineraio la duplicità degli elementi viene ad assumere il profilo d’una sua immaginaria geografia, diventa la costruzione d’un poema utopistico, d’una sua riflessione mentale sull’andare e venire per territori sconosciuti, come se il pittore pensasse contemporaneamente più cose: ad un passato che si presenta sempre mutevole ed ingannevole e ad un presente che cerca di trarre i fili e le conclusioni di molteplici emozioni. Ad un momento antico si sovrappone un momento moderno, ad un momento moderno uno squarcio sul passato. Nelle profondità della mente si agita sempre il mito del Ritorno.
E’ evidente che ogni anima sensibile nel corso della sua esistenza sarà costretta da molteplici fattori a rivivere antiche esperienze dimenticate. Il pittore più d’ogni altro ha bisogno di questo confronto continuo con il suo passato.
Meneghetti vive in quel momento più vite? Certamente costruire un quadro per l’artista non sembra una delle cose più semplici e nemmeno più lineari: si aprono molteplici strade verso il Paese della Realtà (il momento in cui vive) ed il Paese dell’Utopia (il momento in cui l’occhio si proietta dentro i suoi fantasmi).
Il dipinto sembra ancora dividersi tra la volontà della distruzione e la speranza della riconciliazione, come se si trattasse d’una battaglia a lungo protratta nel tempo, tra quello che l’artista vorrebbe respingere e quello che vorrebbe accogliere.
Il quadro vive in questo turbine di sentimenti e di tensioni emotive che compongono la traccia ed il tessuto d’una rifondazione estetica e personale interiore, d’un mosaico mentalmente spezzato e poi ricomposto, ma i tasselli non sono sempre al loro posto, ed allora l’immagine pittorica che emerge da questo trambusto diventa in definitiva come un mare in movimento. Non ci sono più luoghi incontaminati o statici, ma tutto è stato mescolato. Il risultato è un’opera d’arte che sembra sempre osservata e catturata dal fondo d’un magma di molteplici emozioni.
La dualità pittorica di Renato Meneghetti può anche assumere aspetti perversi: sembra che sia percorsa in primo luogo da un senso d’insensatezza e di esaltazione - e tutto allora potrebbe esplodere d’improvviso davanti all’occhio dello spettatore e forse dell’artista stesso, ma ecco che quella stessa insensatezza e quella stessa esaltazione diventano ad un tratto ragionevolezza e sapere e sapienza passando dallo stato primitivo allo stato cosciente.
Anche il mondo caotico si è d’un tratto fermato, ha fatto una pausa, ha trovato alla fine la propria armonia, si è rasserenato, anche se sotto il colore e sotto le forme scomposte o allusive si agita ancora il condensarsi e il disciogliersi insoddisfatto e brulicante della materia.
Anche in questa pittura c’è stata all’inizio una violenza, e non può essere diversamente: la violenza è una caratteristica costante di tutta l’arte contemporanea, sembra che il mondo pittorico (o della scultura e perfino dell’architettura, ma anche di moltissime altre discipline) nel nostro secolo si sia spesso espresso per agitazioni e per contrasti, per provocazioni e per passioni. Max Ernst e Bacon, Picasso e Dubuffet, e con loro moltissimi altri, furono artisti violenti e drammatici, non hanno mai raccontato favole idilliche, ma hanno rappresentato il male del secolo.
Vi furono, certo eccezioni, il geniale Brancusi, per esempio, tra i grandissimi, certo, un uomo capace di dominare ogni emozione. Altri esempi, volendo, sarebbero reperibili tra i minori, tra quelli che furono probabilmente meno sensibili.
De Chirico è difficilmente collocabile in questa categoria - un po’ di retorica lo salvò, - ma il fratello Savinio, nonostante la sua straordinaria eleganza, fu dall’inizio un pittore capace di trasmettere il senso dello stupore e della meraviglia ed anche della paura di cui parlava Longino (o pseudo-Longino, se preferite) nel suo trattato sul Sublime. Subito dopo Burri aveva la dinamite nelle sue opere ed anche molti artisti della Pop Art americana.
E se non era violenza il sentimento che dominava la loro mente, doveva essere sicuramente l’ardore delle loro passioni: essi possedevano il senso del male ed anche quello della decadenza d’una civiltà che inevitabilmente corrompe un poco alla volta l’uomo contemporaneo, anche se ancora non lo sa o almeno spera di sfuggirle per occulte strade.
La pittura di Renato Meneghetti sembra risentire di questa tensione, come se alla fine l’artista volesse sempre andare un po’ oltre, superare perfino l’antica ma indimenticabile dimensione dell’ars pingendi che ha stabilito le sue ragioni imperiose, volesse lasciare il territorio della pittura per ritornare proprio alla pittura, al suo più intimo segreto, volesse cioè sempre tentare un’impresa impossibile ed un po’ paradossale: fare rientrare la violenza nella pacificazione, l’aggressività, che gli ha messo in mano le terribili armi che sono i pennelli ed i colori, in una sua purificazione interiore.
C’è quindi sempre in ogni suo quadro un aspetto materiale, - dove, per esempio, predomina il colore - ed un aspetto spirituale, dove questo colore diventa trasparente e quasi invisibile (come accade, per esempio, nelle Radiogafie, dove assistiamo al fenomeno d’un colore quasi innaturale che ha sommerso un’immagine che vive in un suo ambiguo equilibrio tra ciò che è reale e ciò che è inventato), da una parte, quindi, la realtà, combattuta, respinta ed infine accettata, pur senza finzioni, talvolta perfino brutale, dall’altra la cortese illusione, l’educata assennatezza, il raggiunto equilibrio, là un tessuto strappato, qui un tessuto ricomposto nelle sue fibre e nelle sue forme.
Forse proprio per questo motivo molti suoi quadri sono popolati da molteplici figure, da corpi che non sono più corpi, da volti che non sono più volti, da fantasmi che cercano ancora le loro antiche dimore, o da strati di colore che non sono più colore. La molteplicità delle immagini tende sempre all’unità delle immagini e l’unità è fatta sempre di molti frammenti, di molti particolari. Dove noi crediamo di vedere un unico dipinto in realtà vi sono diversi altri dipinti che traspaiono uno sull’altro.
Ora è una bocca che predomina su un fondo cromatico, ora è un fondo cromatico che trasmette un’infinità di minuscole particelle, coriandoli o molecole - che una volta componevano probabilmente una figura che il tempo o la violenza hanno sbriciolato.
Ora è un particolare anatomico che attraversa la superficie del dipinto, dando l’illusione d’un corpo umano, ora è soltanto un profilo, una specie di cascata d’acque colorate, uno spettro insomma che sembra apparire quasi per caso sul palcoscenico del dipinto in un rapido indistinto movimento. E’ un passaggio da una dimensione ad un’altra, di cui rimane solo un riverbero.
La pittura si è sottratta alle arcaiche seduzioni del passato, forse, chi sa, anche al rimorso del passato ed è già andata un po’ oltre, si è spinta ormai nell’abisso, cioè ha accettato il suo destino un po’ primitivo: è probabilmente questo procedimento che poi ha consentito a Renato Meneghetti d’approdare a molteplici forme artistiche.
Le Radiografie, per esempio, ripercorrono la stessa strada della pittura: sono quadri in trasparenza, in sovrimpressione, sono l’invisibile che si contrappone al visibile, la luce che cerca una nuova luce, anche se il punto di partenza è un mezzo fotografico molto concreto concesso al dominio pittorico, ma si tratta sempre d’una illusione. La fotografia - la radiografia, per intenderci meglio, d’uso scientifico - viene catturata dalla pittura. Va dove non prevedeva di andare, in una specie di fuoco cromatico che l’accoglie in una nuova dimensione.
Molti artisti oggi ci hanno abituati all’improbabilità della materia, al suo nascondersi ed al suo apparire in luoghi sconosciuti.
Molti hanno anzi affermato che la materia non esiste e che tutto invece può diventare densa e concreta sostanza pittorica e cromatica, anche l’uso del proprio corpo, anche una performance, anche la musica, anche il cinema, soprattutto, che conosce la magia delle finzioni, ed in epoche più recenti l’immagine virtuale scaturita da misteriosi programmi elettronici del nostri computer, schiavi e padroni del nostro futuro destino, tiranni d’un mondo non troppo lontano, predicatori d’una nuova violenza: non si sa ancora come finirà questa tensione tra la tradizione e l’immaginazione tecnologica. Già molti artisti si sono avviati per questa strada non priva d’inconsueti pericoli, ma anche di ardite suggestioni.
Le sue Radiografie pittoriche appaiono quindi come uno strumento di comunicazione visiva quasi estremo, come un tentativo di costruire un nuovo regno, pensando in parte alla pittura ed in parte alla sua negazione. E’ il luogo dell’ombra, ma anche del riposo, è senza dubbio il luogo del mistero, il luogo dove il corpo diventa scheletro e lo scheletro diventa corpo. E’ in questo territorio che l’abisso fa di nuovo sentire la sua voracità. Sono immagini laceranti, sono il momento della ribellione. Storicamente appartengono alle nobili origini della nostra cultura che non ha mai fatto molta distinzione tra l’espressione pittorica e quella fotografica: Christian Schad, Moholy-Nagy, Man Ray hanno detto in una dimensione parallela parole fondamentali. Il gioco pare quindi ancora aperto verso altre strade ed altre direzioni.
Però, c’è sempre un però, dalla molteplicità delle immagini scaturite dall’immaginazione di Renato Meneghetti, in questo suo lungo viaggio verso l’impossibile e verso una lontana, contrastata verità, emerge un elemento nuovo: vi è nel suo dipinto un poema pittorico ed una pittura poetica, da una parte un suono forte, un po’ barbarico, perfino un po’ selvaggio, come se ancora lo tentasse l’anarchia delle forme, e dall’altra un desiderio di poesia, cioè un tentativo ben concreto di trasformare tutta questa materia turbinante ed irrequieta, perfino un po’ primitiva, in una raffinata, sofisticata composizione lirica, come avviene, per esempio nelle sue belle sculture che sembrano una versione poetica della pittura.
Poesia e pittura, entrambe dotate di forte carattere ermetico, sono strettamente avvinghiate insieme in questa sua opera: talvolta è la poesia che prevale, talvolta l’aspra selvaggia pittura, ora è una pittura più armoniosa che prende il sopravvento, ora è una poesia più drammatica, ma sempre l’una e l’altra poi trovano la maniera di procedere insieme, amiche e nemiche nello stesso tempo.
La pittura è una poesia muta, diceva quel grande ingegno di Gotthold Ephraim Lessing nel suo Laocoonte - ovvero sui limiti della pittura e della poesia - (1766), che sembra quasi scritto per il nostro tempo, mentre la poesia è una pittura parlante. In questo affascinante saggio sui rapporti tra poesia e pittura il Lessing aggiunge che nello spirito barbaro - e noi nel pieno della nostra civiltà tecnologica siamo di nuovo diventati barbari - l’eroismo diventa una specie di luminosa fiamma dominante.
Anche la pittura di Renato Meneghetti è fiamma ed è serpente, ma in questo caso dovremmo chiamarlo alchemicamente Ouroboros: il serpente-drago che ha il sentimento dell’immortalità, che si piega su se stesso componendo un circolo perfetto.
“Gradualmente, - scriveva Jung, - l’uomo si trasforma in Ouroboros, il serpente che si mangia la coda, che divora se stesso, fin dall’antichità simbolo dell’uomo posseduto da un demone”. E’ quello che succede anche all’artista dominato da una specie di ardore.
La pittura di Renato Meneghetti in questo suo spostarsi avanti ed indietro attraverso la dimensione del tempo ci offre un’immagine trascendentale. Un antico filosofo Zen, vissuto migliaia di anni fa in Cina (cito naturalmente a memoria) disse una volta: “Oggi sono partito per Pechino. Ci sono arrivato ieri”.
Non è un paradosso temporale e nemmeno voleva scherzare o far credere ad un atto di magia, ma voleva trasmettere un insegnamento esoterico: l’uomo è nel tempo, ma è anche fuori del tempo (l’idea di quel vecchio cinese sarebbe perfino piaciuta ad Einstein).
Se applichiamo questo concetto, che appartiene appunto ad una logica trascendentale, anche alla pittura di Renato Meneghetti comprendiamo il segreto dei suoi quadri ed anche del ciclo pittorico che trae il suo nome dall’uso medico delle radiografie. La loro origine drammatica - un’esperienza personale e familiare - rende il mistero più affascinante. La stessa cosa possiamo dire delle sculture e di tutto quello che ha composto in questi anni.
Egli guarda alle cose che esisteranno soltanto in un tempo immaginario, come se per dipingere il futuro dovesse sempre un po’ viaggiare indietro nel tempo (nell’infanzia, per esempio, o nei sogni) oppure viaggiare con mente profetica nel futuro per dipingere il presente.
David Janus
2000