Allo snodo tra l’industria culturale di massa in ambito territoriale e quella in ambito mediale, un uomo dell’Occidente – sesso e appartenenza che sono al vertice e al centro della modernità – ebbe tuttavia la preveggenza di intuire nell’umano non la natura resistente della macchina ma la fluidità e l’adattabilità dell’ameba, una forma di vita priva di arti, molle, inclusiva, in cui la carne è liquefatta e le ossa non hanno ragione di esistere. José Ortega y Cassett toccava qui le intuizioni dei più grandi intellettuali del pensiero occidentale, capaci di tendere la propria attenzione alla vita sino ai limiti estremi del moderno: Walter Benjamin e Marshall McLuhan. Lo sforzo dei post-moderni ha aggiunto poco a nulla alle loro anticipazioni. Ancora oggi le forme dell’arte e i discorsi che riescono a interpretarne il senso in chiave anti-moderna si riferiscono alla crisi del primato umano in una fase – dagli anni Trenta agli anni Cinquanta – che segnava il transito ineludibile dalla società industriale alla società post-industriale. Di fronte abbiamo una sola novità: le tecnologie più mature stanno assumendo la qualità espansiva dell’ameba, la vocazione illimitata dei flussi. L’attenzione va oggi rivolta alle basi materiali che l’innovazione può offrire alle intuizioni che allora affondavano nelle zone più oscure dell’interiorità: tentare di fornire una traccia delle soggettività – dei corpi – che hanno lavorato dentro l’esperienza umana del mondo così da fornire il senso di una sua radicale trasformazione. La domanda da porsi – nell’arte di comunicare e rappresentare così come nell’arte di abitare, cioè nel mondo artificiale che siamo e sempre siamo stati – non è la stessa degli autori qui citati. Essi hanno ripreso i “segreti” riposti nella nascita della metropoli e li hanno rielaborati nella loro interpretazione del carattere contraddittorio dei mass media. Come Baudelaire sono “scesi all’inferno” del destino ripetitivo del mondo moderno, della sua banalità (il grigiore a cui ha fatto costante riferimento la ricerca letteraria di Franco Rella). Ora si tratta di forzare i loro discorsi al di là di loro stessi e domandarsi se ci si possa spingere oltre. E’ qui – mi pare – che vengono meno la critica d’arte o le sociologie della comunicazione o le filosofie dei media anche quando siano al massimo della loro sofisticazione, cioè pregne di quella estrema sapienza negativa di cui il moderno ha saputo sempre disporre in alcune sue figure o zone ma assai raramente ha voluto o potuto tenere conto come “sistema di potere”.
Con le sue immagini ottenute grazie alla pratica e ancor più al senso dei “raggi X” – possibilità di indiscrezione e profanazione da sempre nell’istinto dell’infanzia e dei semplici, dei “poveri di spirito” – Renato Meneghetti fa parte di quelle esperienze estetiche (più ancora che contraddittorie implicitamente terminali) in cui ad essere rifiutata non è la fotografia ovvero la riproducibilità tecnica ma sono gli oggetti storici che – per le istituzioni dell’arte e della società – hanno costituito il materiale di base a cui dare espressione (e i contenuti con cui costruire la realtà sociale).
Meneghetti sta quindi toccando una materia del mondo che ha per me in quanto mediologo una rilevanza epocale proprio perché post-storica, anti-umanistica. Profondamente anti-moderna. E’ raro che ci si possa incontrare con un artista immediatamente utilizzabile nel proprio discorso critico, cioè quel discorso che – partendo da una specifica posizione, positura, appartenenza mentale e emotiva – divide l’opera di un autore-testo tra significati o destini diversi, prendendo parte per l’uno piuttosto che per l’altro. E’ probabile che la mia critica – il mio taglio – tenda a una scelta diversa da quella dell’autore o sia quantomeno laterale all’insieme di significati in cui egli vorrebbe farsi riconoscere, fare apprezzare le sue opere, ma trovo straordinariamente ricca l’esperienza artistica che mi propone. Essa rientra perfettamente nella mia personale ricerca di una linea di congiunzione e separazione tra gli albori della fotografia ottocentesca e il tempo presente dei linguaggi digitali e delle biotecnologie. Lungo l’arco di tempo, dunque, che dal pieno costituirsi del soggetto moderno arriva alla sua disgregazione. Dagli uomini che producono macchine alle macchine che producono gli uomini. Dall’umano al post-umano.
Cerco di dire da subito le sensazioni che provo di fronte allo sguardo radiografico con cui Renato Meneghetti ci invita a penetrare i corpi nostri e delle cose. Mediante diversi gradi di elaborazione tecnica (ciascuno dei quali può certamente rimandare alle opere sue precedenti e insieme smentirle, disincantarle), l’autore propone immagini che sono in tutto e per tutto non-luoghi e proprio per questo il massimo di abitabilità – l’unica appartenenza simbolica davvero praticabile – di cui possa disporre chi del moderno viva il suo estremo punto di rottura e ne valichi i limiti spaziotemporali. Meneghetti inquadra dettagli che sono paesaggi e paesaggi che sono dettagli. Intrusione (parola che Meneghetti ha a cuore) al di là del visibile, oltre le sue soglie, sin dentro la materia organica e inorganica. Procedimento tecnico che si trasforma in visione di mondi, sfere di sensibilità in cui materia, carni, cartillagini e ossa si fanno, appunto, paesaggio. Anzi, si fanno passages: vetrine disposte alla seduzione del passante, attrazione, parco. Ma non sono più le vetrine di specchi e riflessi della società industriale di massa. Fissando lo sguardo su quelle immagini da società dello spettacolo, Walter Benjamin poteva solo immaginare il loro reale retroscena. Attraverso la propria scrittura surrealista – percettivamente alterata, drogata – egli poteva solo alludere all’accadimento interiore, psicofisico, dello spettatore (fu l’individuazione precoce del sex appeal dell’inorganico su cui le estetiche post-moderne sono tornate a riflettere dopo che le estetiche del moderno le avevano affidate per più di mezzo secolo solo ai consumatori di cinema e di televisione, al silenzio – altra parola cara al Meneghetti pittore e musicista – dello spettatore).
Leggiamo: “La fotografia è il nostro esorcismo. La società primitiva aveva le maschere, la società borghese gli specchi, noi abbiamo le immagini.
Crediamo di espugnare il mondo mediante la tecnica. Invece, mediante la tecnica, è il mondo a imporsi a noi e tale rovesciamento ha un forte effetto sorpresa.
Credi di fotografare una scena per puro piacere – in realtà è la scena a voler essere fotografata. Sei solo la comparsa della sua messa in scena. Il Soggetto è solo l’agente dell’apparizione ironica delle cose. L’immagine è il medium per eccellenza della gigantesca pubblicità che il mondo fa di se stesso, che gli oggetti fanno di loro stessi – costringendo la nostra immaginazione a farsi da parte, le nostre passioni a estrovertirsi, infrangendo lo specchio che noi tendiamo loro, peraltro ipocritamente, per catturarle.
Il miracolo, oggi, è che le apparenze, a lungo volontariamente ridotte in schiavitù, si volgono verso di noi, e contro di noi, sovrane, mediante la tecnica stessa che ci serve ad espellerle. Oggi provengono da altri luoghi, dal loro proprio, dal cuore della loro banalità, fanno irruzione da ogni parte, moltiplicandosi da sole con gioia.
La gioia di fotografare è un’allegria oggettiva. Chi non ha mai provato questo trasporto oggettivo dell’immagine, al mattino, in una città, in un deserto, non capirà nulla della delicatezza patafisica del mondo”. Parole scritte da Baudrillard nel 1998.
Finzioni: dalla dimensione tribale alla dimensione fordista del lavoro seriale e a quella post-fordista del lavoro glocal (insieme in terra e in cielo, in vita e morte, al di qua e al di là della pelle): cosa accade se è la banalità delle interiora umane a fotografarci? A moltiplicarsi con gioia? Di questa citazione non possiamo tralasciare neppure una parola: è densa di rimandi al prima, durante e dopo la modernità. Una sorta di breviario dei rapporti “oggettivi” tra il “noi” in nome del quale Baudrillard sembra volere e potere continuare a parlare e la “banalità” del mondo che – sotto questo sguardo ancora umanistico seppure disincantato – si sarebbe impossessato dell’essere umano. Si tratta di un testo-traccia che si presta assai bene a introdurre un discorso sulle “radiografie” di Renato Meneghetti, artista ex pubblicitario (gli esperti del settore ne riconoscono immediatamente lo stile, la grafica, il design). Il suo lavoro – x-rays – ha infatti a che vedere proprio con il lancinante accadere della bruta parola “pubblicità” non più sul versante della disperazione umana che la disprezza in nome del mondo, del suo essere più profondo, non-apparente, ma sul versante della sua allegra proliferazione e metamorfosi. C’è un percorso umanistico della comunicazione di prodotto (questo spiega la bottega multimediale degli artisti moderni dal Medioevo sino ad Andy Warhol ma anche all’agenzia MRP) e c’è un percorso della comunicazione d’immagine che ha a che vedere con il post-umano.
Dal momento che Meneghetti non sembra essere tra quegli artisti che sputano sulla pubblicità (nasce artista prima che pubblicitario) o nascondono di farla, gli è accaduto di dire che essa “gioca d’anticipo” (cfr. “Hous Organ”, 1989). Ha ragione? E’ un bravo pubblicitario perché e un bravo artista o il contrario? Questo poliedrico autore rivendica la propria creatività – in quanto tale essa è sempre anticipazione, invenzione dell’inatteso – di fronte alle automatiche capacità dell’advertising che, nel cogliere l’aria che tira, ha assorbito in sé anche l’idea di oltrepassamento della pelle umana? Oppure è stata la pubblicità a produrre tale sconfinamento e l’autore ad assecondarne il vento? Si tratta della pulsione metropolitana verso la trasparenza o dell’estroflessione di Baudrillard o di che altro? Meneghetti rivendica comunque l’originalità della sua scelta nel dare espressione a una vista radiografica del corpo. Una vista umanissima, spirtuale, oppure una vista iper-umana, dis-umana, squisitamente materiale? Creazione (protesi, tecnologia) volta a vincere sull’anima o sul corpo?
Se torniamo a leggere il testo di Baudrillard, capiamo quante risposte esso contenga alla serie di tali cruciali domande. Ma perché cruciali? E’ ad un simile interrogativo che qui vorrei dedicare il mio discorso, ricambiando così – se vi riesco – la fertilità di idee di cui le speriementazioni di Meneghetti sono una vivida sollecitazione. L’interpretazione delle sue opere a partire dalla loro svolta verso l’uso di lastre radiografiche e inchiostri alcolici – segnalata nel 2000 da Gillo Dorfles come caratterizzazione stilistica che, a cavallo tra anni Settanta e anni Novanta, si contrappone alla centrifuga versatilità dell’artista – non può restare nella prospettiva di pur geniali conservatori come Jean Clair, per il quale gli oltrepassamenti degli espressionisti o di Duchamp non sono altro che l’estensione e radicalizzazione delle tradizioni prospettiche, antropocentriche, dell’arte.
Ho davanti una affiche, firmata da A. Mazza e datata 1909, in cui l’immagine di una bella signora a spalle nude guarda dritto negli occhi dello spettatore e – come era accaduto, accadeva e sarebbe accaduto in futuro sino al liberty degli anni Trenta e oltre – il solo corpo femminile basta a fare da testimonial, seducendo in virtù del proprio immediato erotismo. Ma in questo caso lo stereotipo è crudamente infranto: laddove la positura della donna avrebbe dovuto mettere in vista l’attrazione del suo occhio e della sua spalla di destra – scoprendo generosamente il seno in quella mistura di sacro e profano che l’icona della madre-vergine aveva trasmesso ai cartellonisti attraverso gli studi accademici – ecco che il colore suadente e caldo della pittura si impallidisce e raffredda ad opera di una luce d’origine spettrale, morta, innaturale, lasciando così emergere sino ad una parte del volto l’immagine dello scheletro nascosto, celato, dall’offerta di quella morbida carne piena di vita e bellezza. Lo sguardo dello spettatore precipita nel vuoto dell’orbita e il buio inespressivo di questa gli rovescia contro il desiderio appena stimolato dalla pupilla dell’altro occhio. L’immagine ha tutti gli ingredienti artistici del memento mori: stando alle pagine di Baudrillard sullo scambio simbolico sempre messo in gioco nella società dei simulacri e dunque delle merci, sappiamo anche quanto stretta sia la relazione tra seduzione e morte.
Quindi la donna “divisa” tra vita e morte, tra carne viva e ossa, a meno di non essere giustificata – come in effetti in questo caso – dal prodotto che vuole comunicare, potrebbe essere il risultato di una invenzione pubblicitaria particolarmente ardita, tesa non a fare pubblicità ma a spiegarla, rivelarne il meccanismo, il modo in cui funziona il corpo silente dello spettatore che vi si intrattiene e la consuma (come si è detto appunto di Benjamin – e come oggi si può dire di Meneghetti). Niente di strano, invece, se ci spostiamo sull’immaginario ottocentesco che ha dato luogo ai linguaggi della metropoli: si pensi ai trucchi del teatro, alle lanterne magiche e alle fantasmagorie, alle illustrazioni della narrativa, ai giochi di intrattenimento, sino ai primi film muti e, da questi, ai primi cartoni animati della bottega-Disney. Qui lo scheletro appare pieno di ritmo e allegria, paura che si sviluppa in progresso, morte che danza con la vita.
Torniamo all’immagine di Mazza e sveliamone il prodotto che invita ad acquistare: si tratta di “Scienza per tutti”, una rivista pubblicata dalla casa editrice Sonzogno e venduta a 25 centesimi sul mercato della cultura di massa. Questa è la ragione di una immagine che si è permessa una visione radiografica del corpo umano con tanto anticipo rispetto ai giorni di Meneghetti. Essa allude alle meraviglie del progresso, alla possibilità di vedere al di là della pelle. Da buon cartellonista, dunque attento alla sensibilità del pubblico, Mazza ha tuttavia reso morbido, sopportabile, il contrasto tra scheletro e corpo nudo-vestito, la differenza tra la moda e la struttura portante dell’abito, dell’abitare, dell’essere al mondo. Per capire questa cautela, dobbiamo cercare di ricostruire il processo di mediatizzazione del corpo umano dalla sua fase meccanica alla sua attuale fase immateriale. L’immateriale entra nel mondo delle maschere. Descrivendo questo percorso, si può individuare tutto lo spessore del lavoro di Meneghetti, argomentare la sua scelta e capire come essa si collochi o altri – con altra soggettività, in nome d’altro – potrebbe collocarsi.
Proviamo a partire dalle lezioni di anatomia fatte in pubblico, in piazza, offerte cioè al tempo stesso come scienza e come attrazione. Ne sono una suggestiva documentazione i frontepizi dei primi manuali a stampa di anatomia: il cadavere è in scena e guidato dal medico e dalle scritture della tradizione medica, un “esecutore” – allora assai più vicino al macellaio che al chirurgo – ne apre il corpo, ne sonda e mostra i muscoli, le vene e le viscere, mette a nudo le ossa. La profanazione e lo studio dei morti apre le vie della cura dei vivi. La scienza percorre in modo palese ciò che in futuro verrà velato e rimosso: superstizione, magia, delitto. La scena anatomica che è all’origine della chirurgia moderna ha in sé tutti gli elementi delle fantasmagorie metropolitane. Londra tra Ottocento e Novecento: Mina – nel film che Francis Ford Coppola ha ricavato dal Dracula di Stoker – al Principe del Male che le chiede dove sia il Cinema risponde contrapponendogli la legittimità borghese del Museo e avrà di lì a poco da ridire sul fatto che a Dracula quelle immagini insieme spettrali e seduttive appaiano come uno straordinario progresso della scienza. Dracula è Jack lo Squartatore, il più noto chirurgo dell’immaginario collettivo mediato dall’industria culturale di massa; l’artista che sventra il corpo delle prostitute inevece di pensare ai Musei e “senza sapere” che sarebbe entrato di diritto nei luoghi più privilegiati della memoria collettiva. Il cinema è stato ed è soprattutto oggi una grande lezione di anatomia. Infine anche l’arte è tornata sui cadaveri, quando il processo di de-generazione provocato dai flussi televisivi la ha gettata in una forma di perdita di senso generalizzata (ripetizione del sentimento di dissipazione delle arti storiche già provato dalle avanguardie dei primi decenni del Novecento).
Tuttavia, per capire la sensazione che oggi si può provare guardando-sentendo le immagini di Meneghetti, bisogna distinguere alcune specifiche tappe in cui la tendenza dell’anatomista rinascimentale si compie nella spettacolare macelleria mediale del divertimento contempopraneo: sono gli snodi attraverso i quali il corpo degli umani ha vissuto espansioni e intensificazioni inaudite rispetto all’Antico (che pure ne aveva mitologicamente espresso ogni vocazione dalla più apollinea alla più dionisiaca). E’ una storia che ha a che vedere con la pelle e con ogni protesi umana. La tematica che Meneghetti ha affrontato sotto il titolo-programma “fagotatrici” ne costituisce un segmento molto rilevante (e rivelatore). Ma, mentre nell’idea di una umanità fagocitata si apre il rischio della nostalgia umanistica, da sempre strumento di potere in mano proprio di chi crediamo colpevole della disumanizzazione del mondo, i panorami offerti dalle “radiografie” sembrano potere superare ogni regime e galateo della civiltà dell’arte così come della società.
Torniamo dunque alla fotografia (un linguaggio modernamente “classico” che l’autore di cui stiamo parlando conosce assai bene su ogni versante delle sue applicazioni di “genere”): essa rappresenta il primo netto passaggio del corpo umano dentro la dimensione in-umana dello scatto meccanico dell’obiettivo sul reale (il mito di questa sua apertura verso una corporeità non-umana parlava attraverso le ibride figure di Centauri e Satiri o le seduzioni “animalesche” di Giove). Sul reale o sulla realtà, dunque? L’agire del fotografo era espressione al tempo stesso del modo in cui l’essere umano vedeva-costruiva la società e del modo in cui il mondo a lui circostante – la parte non socialmente percepita e legittimata dell’ambiente – entrava automaticamente in quello stesso suo esserci. Si faceva presente eppure inespresso, attivo eppure assente. Sfondo significativo, in possesso della facoltà di dire anche se ancora privo di lingua (sarà il linguaggio digitale a offrirne il riscatto almeno sul piano virtuale).
McLuhan ci ha offerto una traccia per seguire le trasformazioni del corpo da come è percepito negli spazi dell’umanesimo a come inizia ad essere percepito con il neotribalismo dei nuovi media. La traccia non è storica, sequenziale, ma sostanziale. Consiste nella contrapposizione tra il sentire e il vedere. Tra le tecniche del corpo e le tecniche del sapere. Tra l’espansione della rete corporea dei sensi grazie alle loro protesi tecnologiche e l’ “ordine costituito” della scrittura. Le forme del cinema, della radio e della televisione hanno lavorato nel luogo di mediazione tra questa “politica” contrapposizione tra forme inclusive e forme esclusive dei linguaggi umani. Nelle culture della parola e degli schermi, i corpi umani combattono contro le loro stesse estensioni e la zona di questo conflitto è costituito direttamente dalla pelle e sempre meno dall’abito. Solo con l’estrema fase delle comunicazioni di flusso – massimo intreccio tra forme di rappresentazione e mondo – e con l’inizio delle comunicazioni digitali, la pelle non è più un confine ma un transito tra il dentro e il fuori, una zona relazionale che slitta al di là dell’attore sociale così come del divo o del testimonial. Così come dell’artista e del suo modello.
La parola – giunta ad essere pensiero collettivo organizzato – ha vincolato a sè l’immagine moderna potendo contare sul potere di comando della scrittura. Ecco perché la patafisica leggerezza a cui allude Baudrillard è in relazione con Meneghetti, quale sia l’intenzione che egli crede di dare alle proprie radiografiche rappresentazioni (un desiderio a suo tempo già implicito nelle prime fotografie di fantasmi e che, in quanto desiderio, sex appeal di corpi situati, ha assimilato in sé la natura fantasmatica dell’“obiettivo”). Prendiamo tra le mani un saggio di René Daumal dedicato ai “limiti del pensiero filosofico”. Daumal, il teorico della “patafisica”. Un saggio scritto nel 1935 da chi è stato tra i protagonisti di quella magica predisposizione intellettuale a “contraddirsi” in cui si raccolsero iper-uomini come ad esempio Bataille (Meneghetti si è dedicato anche alla pornografia, che è per eccellenza la scrittuta del desiderio-oggetto, del desiderio-merce, del fuoriscena dei prodotti e delle opere, del loro arcano, della loro implicita oscenità). Una stagione che, già a partire dalla “politicità” di Bréton, è stata sostanzialmente inascoltata. E lo è ancora: ad essere massimamente distratti rispetto al senso di quella comunità del non-sapere, oggi sono proprio quanti accusano le genti di essere distratte dal “grande gioco” delle tecnologie e dei consumi, strappate a se stesse – alla loro anima, alla loro verità – dalla seduzione degli artifici.
Leggiamo: “Qualunque sia il mito nel quale siamo immersi, la filosofia generale, ricerca dell’essere, riuscirà a usufruirne solo se esce dai suoi limiti verbali; ma allora si dovrà realizzare in un’opera diretta di cultura umana, in un nuovo adeguamento di fatto, tra la natura, l’organizzazione economica, le istituzioni, i diversi corpi di dottrine, di tecniche e di arti e i bisogni fondamentali dell’uomo. Se questo è un sogno, ebbene, svegliamoci!”.
Ascoltando la parola incardinata nel mondo, il mondo si fa muto ad eccezione di chi lo possiede e lo fa oggetto di linguaggio. Entrando dentro al corpo dell’essere umano in quanto simulacro di carne, Meneghetti mette in vista il senso dell’intimità, della coscienza di sé. La tradizione per cui la verità è nel punto più remoto e nascosto vorrebbe dare a questa intimità finalmente ritrovata il carattere sacro della comunità o quello religioso dell’identità, là dove – per miracolo – la Parola si fa carne e la carne si fa parola. Personalmente non credo che entrare nell’intimo – l’intimo nella moda è l’indumento che si frappone tra pelle e maschera sociale e che finge di celare le ferite del corpo, le sue aperture – significhi approssimarsi alla verità quanto piuttosto accettare di distaccarsene in modo definitivo (senza altro limite). Uscire dalla verità: abbandonare il mito di una oggettività-soggettività del mondo data per compiuta sin dall’inizio. Una volta penetrata, la pelle è sconfinata.
Uscire dai limiti verbali (della parola-corpo). A me piace vedere le immagini di Meneghetti come rappresentazione di un mondo storicamente e socialmente ancora senza linguaggio: il mondo a cui, pur avendone facoltà, non è dato di entrare in relazione con se stesso esattamente come i corpi di esseri umani in stato di coma o cerebrolesi o anche di quanti la civiltà dei comunicatori definisce ignoranti, analfabeti, disabili. Piace vedervi una “bellezza per caso”: senza civiltà, anzi senza aria per respirare, esattamente come i paesaggi della Luna o di Marte. Ciò che può colpire nelle sue forme di rappresentazione dell’interiorità fisica del mondo è il fatto che egli possa dare loro un titolo e che spesso le definisca “ritratti”. Il significato della parola ritratto è al punto di congiunzione tra rappresentazione e contrattazione. Meneghetti sta qui ritrattando i nomi dell’arte, la possibilità dell’arte di nominare, il tipo di privilegi che su questo piano essa ha conquistato o ha perduto. Un artista oggi ritratta le convenzioni e le inconvenienze delle arti ma è anche ritrattato al di là del proprio volere e del volere dell’arte stessa. Non spetta a me decidere le intenzioni e motivazioni di cui Meneghetti carica le proprie immagini. Eppure credo valga la pena di offrire una sponda analitica diversa da quella che tornano ancora sempre a proporre i modelli più autorevoli e riconosciuti della critica. Tra i critici d’arte di oggi, preferisco di gran lunga i “totò” e gli “sgarbati” del presente rispetto all’educazione civica di quanti, nati dalle avanguardie della “civiltà delle macchine”, si sono auto-conservati nella ripetizione, restando tali e quali persino dopo le culture generaliste della TV e dopo le avanguardie di massa di Calvesi. Ma anche nelle voci più barbare e aggressive, meleducate e “smidollate” – là dove, cioè, le ossature del moderno si sono liquefatte – sembra a volte annidarsi il rigurgito di uno stesso modello “museale”: dopo una persin troppo sistematica irriverenza, sembra tornare a galla qualche frammento di riverenza culturale verso i soggetti storici di sempre (magari per necessità o interesse, per bisogno tattico più che strategico, professionale più che vocazionale).
Dietro il percorso quarantennale di Meneghetti, che dal découpage arriva sino alle ecografie della natura vivente, sarebbe un tradimento di basso profilo vedere il rassicurante ritorno ad una garanzia di qualità artistica, al “marchio di fabbrica” delle istituzioni dell’Arte appena appena turbate dall’aria che tira. Penso assai più affascinante un’altra avventura (affascinante per quel fascino, rapimento, che spinge la pubblicità ad essere in anticipo non tanto perché supera la creatività convenzionale ma perché abita le viscere del mondo, le sue più fertili banalità): il coraggio o l’azzardo di non disporre più di sicurezze e di cornici. Di volerne fare a meno. Di guardare, come appunto le radiografie fanno, altrove. Un altrove della separazione, del non-ritorno, e non dell’inclusione. L’impulso che potrebbe fare da spinta per questa scelta – in cui a rarefarsi non è solo la pelle dell’uomo ma sono anche le tele del pittore – è in ciò che repelle e non in ciò che ci appaesa.
Alberto Abruzzese
2003