VEDERE DENTRO, VEDERE OLTRE
a cura di Luciano Caramel

Renato Meneghetti è autore polidimensionale, aperto alla sperimentazione e alla pratica di molteplici e differenti linguaggi. S’è dedicato, fin da giovanissimo, alla pittura, e poi alla scultura, alla fotografia, alla musica, al design, all’architettura, alle performances, alle installazioni, al teatro, al corto e lungometraggio, al video, anche facendo interferire i diversi media, cercando rapporti, interazioni, osmosi, slittamenti.
Con una stretta partecipazione, di fatto, alle ridiscussioni statutarie dell’arte dopo, e oltre, l’informale, tra gli anni Sessanta e Settanta, che certo ha stimolato in lui la riproposizione in termini nuovi dell’operazione artistica, ma non ha facilitato la comprensione del suo lavoro. Che diviene invece ben più leggibile dagli anni Ottanta, consentendo anche un riesame a posteriori di certi suoi esiti precedenti, alla luce appunto del poi più appropriatamente valutabili.
Certi monotipi del tempo tra il 1964 e il 1966 -1967, quando ancora Meneghetti non era ventenne, o appena aveva raggiunto il traguardo dei vent’anni, attestano infatti quell’inclinazione a immagini veicolanti in termini non descrittivi un senso di inquietudine, un porsi allarmato di fronte alla realtà di intonazione psichica, tutta interiore, che sarà sostanza dei risultati più maturi, appunto dai primi anni Ottanta. Così in Dissolversi, del 1964, dove una sagoma iterata va gradualmente dissolvendosi, da sinistra a destra, quasi entrasse in una situazione altra, al di là della soglia della corporeità. Mentre in Il Giudizio, del 1965, il richiamo esplicito al Giudizio finale, con la distribuzione canonica degli eletti nella zona superiore e dei dannati in quella inferiore, è poi legato da traiettorie semitrasparenti, forse delle lingue di fuoco che salgono dal basso, ove i peccatori si affollano in un fitto groviglio segnico. Con effetti di tensione come magnetica, che in altri fogli, del 1967, di carta chimica lascia il posto alla sensazione di fluttuanti concrezioni ectoplastiche, su di un fondo scuro su cui appare in positivo l’impronta di scritture a macchina, che danno all’insieme – titolato Messaggio “314” – un tono misterioso, con interessanti, inusuali soluzioni logoiconiche.
Sempre in quegli anni molto giovanili, troviamo poi delle immagini angoscianti realizzate attraverso il collage su tavola misto a pittura ad acrilico, delle quali è documento drammatico la visione di morte Cadeva la neve ad Auschwitz, del 1965, al cui centro è collocata, sul suolo innevato, la fotografia ritagliata del corpo scheletrico ignudo di una vittima di quel campo di sterminio, avvolto da densi fumi incombenti, mentre in primo piano, in basso, corre orizzontalmente un filo spinato. Una visione di agghiacciante efficacia, in cui è incarnato senza intervento alcuno di amplificazione retorica, ben oltre le insistenze illustrative di molta nuova figurazione di allora, il dramma del genocidio e, attraverso esso, ancora direttamente, senza alcun artificio, la denuncia della barbarie omicida dell’uomo contro l’uomo.
Siffatta volontà significante, questa volta riferita ai movimenti alternativi delle giovani generazioni, la ritroviamo in Contestazione in musica, del 1966, anch’esso a collage, con la disseminazione coinvolgente sulla superficie di figure e di vedute di eventi musicali, tutt’attorno a un grande occhio centrale che guarda oltre il quadro, scrutando e come attirando a sé il fruitore, con l’effetto ipnotico dei cerchi concentrici che lo conformano. Ed è una direttrice che, come un corso d’acqua carsico, riemerge negli anni Ottanta, in découpages su carta intelata più sintetici e distesi, nei quali immagini ritagliate di volti o d’altro appaiono come galleggianti in una spazialità allusiva, indeterminata. Sempre in quegli anni Meneghetti riprende il monotipo, per dar forma a grandi volti, o busti, come corrosi, da day after, che emanano sensazioni sinistre.
Siamo però ormai qui in una nuova temperie, in cui l’artista, prima parallelamente, poi esclusivamente andrà saggiando il ricorso alle radiografie in pitture ad alcool su tela pigmentata o ad acrilico su tela emulsionata per riproporre, con nuova icasticità, una realtà di stretta intonazione psichica, tutta interiore, in solo apparente contrasto con l’oggettività dei procedimenti scientifici utilizzati. Quanto appare, su fondi uniformi o diversamente trattati, grazie all’effetto di radiazioni invisibili, consente infatti di vedere dentro l’uomo, oltre l’involucro esterno, attingendo una primarietà che, offerta con manipolazioni espressive (non necessariamente complesse, anzi prevalentemente elementari, di posizionamento), trasferisce il messaggio in una dimensione che nel rispetto del contingente, del particolare, del fenomeno, lo assolutizza, fissandolo nella sua strutturalità sostanziale, che consente la vita e ad essa sopravvive, almeno temporaneamente, fino alla polverizzazione a cui tutto è destinato e che lo scheletro scarnificato preconizza. Una sorta di memento homo, quindi, di denuncia della vanitas, pregno di richiami al senso primo e ultimo, di vita e di morte, dell’essere uomo.
Le mascelle, i denti, gli avambracci, le mani, i crani, i bacini, le colonne vertebrali e ogni altra parte dello scheletro partecipano di un’aura che va oltre i sensi umani, rimanda a coordinate rese possibili, cioè captabili dall’occhio e dalla mente dell’uomo, da un qualcosa di inafferrabile, che di per se stesso comporta l’apertura a dimensioni altre dal determinismo meccanico, tattile e percettivo.
E ciò accresce, non limita, la forza delle immagini che Meneghetti sa trarre da tali strumenti, evitando, come egli stesso ha scritto, “le secche dell’epigrafe funerea o del puro reperto scientifico”. Con interventi attivi, ovviamente, non con la pura utilizzazione del mezzo scientifico, ottenendo risultati che vanno ben al di là di quelli conseguiti nelle ricordate prove giovanili.
Né l’azione dell’autore è solo di ordine propriamente pittorico, espressivo. Essa riguarda anche il senso, agisce pure a livello metaforico, con le trasposizioni significanti che dell’arte sono proprie, già del resto implicite nel trasferire sulla tela la radiografia, nel trattarla, nel porla in rapporto con altri, diversi interventi e materiali. Fuori quindi della passiva asetticità catalogatoria di molte immagini di autori, soprattutto giovani, che solo apparentemente sono accostabili a Meneghetti, nonostante l’apparente, appunto, comune attestarsi su immagini ‘elementari’, di vita e di morte, e spesso anche di violenza, che si esauriscono nella documentazione, nella registrazione tautologica, su di un registro, di conseguenza, sostanzialmente naturalistico. Ma fuori anche dell’amplificazione utile all’impatto urbano del messaggio pubblicitario, propria, ad esempio, del pur grande, su tale piano, Oliviero Toscani, l’efficacia delle cui immagini agisce su tempi brevi, proprio per la totale implicazione con l’attualità che le rende al momento tanto valide.
Quanto Meneghetti ci propone è attivo invece nella durata, dell’arte sempre propria, anche quando sia radicata nelle più dure e ‘finali’ tematiche esistenziali. Come, per restare nel campo del contemporaneo (ché, per l’antico, gli esempi sarebbero innumerevoli: da un Grünewald, un Michelangelo, un Caravaggio a un Goya), nell’Andres Serrano delle cibachromes sul tema della Morgue, i cui cadaveri sono sempre astratti dal contesto ambientale, si danno nel loro isolamento e mai, inoltre, nella loro totalità.
C’è infatti, nelle sue immagini, un’azione attiva dell’autore che, con diversi mezzi, le rende emblematiche, non illustrative, le porta cioè su di un piano non sovrapponibile a quello della cronaca. Grazie anche – ed è constatazione mutuabile per Meneghetti – all’assolutezza, nella sua stessa costitutiva assenza di temporalità in atto, dell’immagine pittorica (o, anche, fotografica). Certo il succedersi effettivo, non potenziale, dei fotogrammi di un film, o di un videotape, consente effetti di grande suggestione sullo spettatore, che è ‘preso’, anche emotivamente, dalla dinamica di quanto gli scorre di fronte. Che è però pure, contemporaneamente, sottomesso a ritmi non arrestabili e quindi non dominabili, pena lo svilimento della loro natura.
Tutto ciò è indubbiamente di forte efficacia comunicativa, come ha sperimentato ripetutamente lo stesso Meneghetti. Ma c’è il rovescio della medaglia. La pittura, nel suo fondarsi sull’immobilità, sul congelamento del divenire in un suo momento esemplare, permette, nella sua parzialità, un rapporto paradossalmente, credo, più attivo, nel suo travalicare-fermare quella dinamica temporale che invece in genere maggiormente avvicina il cinema – nella sua diversità, naturalmente – alla realtà fenomenica. Qui, in posizione complementare, non alternativa, a quella del cinema, sta la forza della pittura, come esemplarmente provano le Radiografie del nostro artista, che ripropongono l’‘astanza’ teorizzata da Cesare Brandi.

Luciano Caramel
1999