“La materia era radiazione e la divinità silenzio, quel che stava nel mezzo, una bazzecola.”
(Gottfried Benn, Il Tolemaico)
Questo sterminato mondo artistico sovrappopolato, intasato, demente – paesaggio fuori di senno, così appare all’ignaro che passa e che nessuno oserà mai più mandare alla gogna – non è mica vero che disdegni le immagini. E dunque, se il sistema della cultura si presenta soprattutto allo zenit della più pura delle visibilità, nella super produzione di un’immagine fuori scala, permanente e senza castone, quale realtà distaccare da questo flusso di figure assedianti in cui la magniloquenza di ciò che si mostra è pari alla catatonia di chi guarda?
Esiste davvero un universo delle immagini che all’apogeo di una sua, come dire, teppistica iconicità, adesso fa a meno di noi?
Per esempio, credevamo che all’origine dell’arte figurativa stesse un certo attaccamento alla vita. Che essa fosse la prova immemoriale dell’uomo, anzi proprio del corpo che aderisce al mondo. Macellai velleitari, sezionatori di mucche e vitelli, esperti del sangue ostentato ci dicono che no, non era vero. E non c’è più raccapriccio, pudore o sacro orrore dei visceri che possa fermarli.
Se guardi il gran ciclo delle Radiografie che Renato Meneghetti ha durante quest’ultimo decennio composto, lo ricolleghi d’istinto a quella tradizione del frammento anatomico che da Géricault arriva, facendosi cinica palpeggiatrice di poveri morti d’obitorio, a Serrano. E naturalmente lo metti più vicino al primo che al secondo. Perché riconsiderando tutte le cose ideate da Meneghetti nel corso della sua carriera, questa sua cultura complessa, leonardesca – creatività eclettica, impaziente, esercitata fino alla stravaganza e che pure sembra agire sempre sotto un unico raggio, sotto un’inalterabile passione per l’artificio – se cioè si passano in rassegna pittura, scultura (dov’è il volto battuto, il mutante da cui non cola sangue), design, architettura, teatro, performances, installazioni, si trova soprattutto l’adattamento di un corpo alla Modernità, a un mondo tecnico che ne chiede lo smembramento, il disarcionamento, l’adattabilità, ma mai la negazione, quella violazione inumana che vedi cupamente trionfare dappertutto. Qualsiasi cosa faccia Meneghetti, sempre fa segno in direzione di un’energia che non cade.
Allora ti si para davanti questo ossario fosforescente, questo fastoso, barocco teatro di spoglie sotto luce vacillante e chissà perché ti viene in mente La morte per acqua nelle Terra desolata di Eliot: “Fleba il Fenicio, morto da quindici giorni / Dimenticò il grido dei gabbiani, e il fondo gorgo del mare. / E il profitto e la perdita. / Una corrente sottomarina. / Gli salpò le ossa in sussurri. E mentre affiorava o affondava. / Passò attraverso gli stadi della maturità e della giovinezza. / Procedendo nel vortice. // Gentile o Giudeo / O tu che volgi la ruota e guardi sopravvento, Considera Fleba, che un tempo fu bello, e altro al pari di te”.
Dunque ecco i temi sollevati: la scoperta di una condizione innocente del corpo, libera ormai da qualsiasi scopo o destino. I nomi sul fondo, senza più volto. La vita rimasta lassù. Una specie di esortazione alla pietà. Letteralmente: alla compassione.
Le Radiografie di Meneghetti sono come epigrafi incise e dette da una singola luce contro l’invadenza del buio. Voci provenienti da un’Ade moderna, fragile e ardente, mondo parallelo alla vita com’è. Indicano un altro tempo, al modo di come per Chateaubriand accadeva in certe isole della Norvegia, dove “vengono dissotterrate alcune urne scolpite con caratteri indecifrabili. A chi appartengono queste ceneri? I venti non ne sanno nulla”.
E poi cosa proverebbero queste perlustrazioni che così evidentemente pretendono chiarezza, intelligenza, queste investigazioni condotte come sulle tracce di un segreto da carpire, da portare via: la forza disvelata dell’Origine? Il Dentro, il Vero, il Profondo contrapposti al Fuori, al Falso, al Superficiale? Siamo davvero convinti di possedere un’interiorità, un contenuto? È possibile frugare così un corpo sperando di trovarvi la gloria di una spiegazione ultima, definitiva? (Ecco l’iperbole del Proibito: ci è precluso guardare così.) Su quale costola o scapola a nudo si è dunque appesa, pendente come uno straccio, l’anima? Si è acquattata tra vertebra e vertebra, o si è rinchiusa nel cavo nero dell’occhio?
Meneghetti sa solo che tutto è forma. Ne scova e difende la bellezza ovunque può, e questo secondo lui ci salva. Ecco il compito.
Che il corpo equivalga a un Paesaggio (qui è evidente l’allusione a un mondo abitabile, a un’architettura immaginaria, al fantasma di una terra con i suoi confini, le colline, gli orizzonti) o a un Presagio (la salute, la malattia captate dalla lucidità di un procedimento veggente) il linguaggio qui fa di tutto per sconfiggere la paura che a folate lo traversa. Togliendoci il timore dell’ignoto, a noi che siamo i pellegrini che vengono da fuori, per il solo fatto di rappresentarlo, fendendo questa specie di Guernica del corpo sconosciuto, di requiem intonato sopra note alte, violente, smerigliate.
Intendi così una simile immersione letargica, questo calarsi nelle proprie sensazioni fisiche più profonde e occulte fino a farne delle visioni. Unica medicazione, cauto lenimento…
All’inizio quindi ti sembra che il corpo qui sia definitivamente sottratto al desiderio, alla libertà, dislocato nell’orbita di un immaginario neutro, senza eco, senza più svolgimento. Meneghetti ci rivela – gesto contrario a un disvelamento – ciò che non siamo, che non possediamo, o tutto ciò che pure intimamente nostro non ci appartiene più. Ogni ritratto è qui infatti ad imitazione non di un individuo, della sua personalità, della sua essenza, ma di quel che ad esso sfugge come per un versamento, un’emorragia. Dov’è più il noi che dice “quelli sono i nostri corpi”?
Questo scandaglio del corpo profondo celebra una sua misteriosissima e fragile vittoria contro l’inerzia, l’opacità dell’esistenza, ma poi si dirige subito altrove. Percepisci così bizzarre, capricciose maschere, emissioni e incarnazioni del Notturno, dell’Oscuro. Isolate, mutilate, ecco allora parti di figure come costellazioni e fiori, singolari piante che lussuose e indifese nella loro bellezza si aprono solo al buio. Animali fantastici e inermi, colpiti adesso, per la prima volta, dai nostri flash.
Ogni immagine è come se finalmente cercasse di espandere vita propria, un’espressione non psicologica, una gesticolazione ancora indecifrata, come per un rapimento dell’individuo a una condizione estatica, perduta. Perché al fondo della sua pura, assoluta fisicità, il corpo si accende, si tramuta in energia spirituale. Se abita adesso un mondo cieco e muto è per rivivere il ricordo del grembo, della Madre, là dove ci dice Pasolini “io so che ero esistente”. Accanto a lui, che giace tra il rimpianto e la chiaroveggenza, si incontrano simultaneamente il passato e il futuro, Dio e il Nulla: e l’uno non fa che presentarsi ogni volta come il surrogato più perfezionato e inesplicabile dell’altro.
Marco Di Capua
1999