Lo scorrere lento delle onde magnetiche sembra avvolgere la densa corporeità del mondo, l’immagine viva della macchina umana: una fabriceria tanto impervia quanto ampia di significati. Poi la forma si raccoglie nel suo cinematismo, nel bagliore coatto del fuoco. Quel fuoco proprio della biologia, quasi uno spettro interiore dove si riflette l’urlo, il magma, il distorto sogno cellulare. A queste pulsioni sembra concedere la propria eterogenea ed espansiva creatività, Renato Meneghetti (“Radiografie”, fino al 15 giugno 1999 presso la “Scirocco-Arte contemporanea” di Terrasini; testi di Francesco Carbone e Marcello Palminteri). Egli è assorto sulle tenebre infinitesime della tissularità. Così come dimostra l’attuale fase della sua ricerca estetica, percorsa, da oltre un decennio, sulla analisi e sul racconto d’una autobiografia strettamente biometrica. Qui il substrato si offre in virtù della mediazione e del trasferimento di lastre radiografiche, fino alla ricreazione d’una cromatica assunzione di pigmenti esasperati dall’alcool, e che al corpo (e dal corpo) svelano il proprio dramma dell’inconoscibilità come la propria impavida realtà. Ma una coerenza tenace, e, se vogliamo, ossessiva, appare impressa nel linguaggio pirotecnico di Meneghetti già a partire dagli anni Sessanta, lungo una pittura materica, che nulla concedeva alla maniera, o ad una realtà scandita da ritmi o armonie prestabilite. Già sin d’allora i frammenti erano svelati o celati dalle stratificazioni onnivore della realtà: sia sotto forma di volti, di lemnischi foliacei, di assemblaggi attorti e barocchi (se non di gotica pregnanza) distribuiti nella spirale del college, del monotipo, o del “decoupage”.
Ecco che la poetica di Renato si è sempre di più attestata sul piano dell’ambiguità formale e ideale. Occhi, visi, erosioni mentali (si veda il ciclo, colmo di fascino inquietante, delle “fagocitatrici”) hanno, e con sempre maggiore insistenza, caratterizzato quell’assolvere il mandato dell’artista come sospinto verso la reintegrazione con una società in aperta disgregazione. E questo è stato attuato contro ogni regola, fino al raggiungimento di una sorta di estetica perversa quale segno manifesto dello scarto e del cambiamento, dove, persino la propria sembianza, si offre all’orrida (e salvifica) dicotomia della metamorfosi. Il tutto, così, precipita in volute insane e meditatrici (non è casuale) il percorso di “Insania” degli anni Ottanta). In questo velare e dis-svelare: sia icona, sia parola poetica, sia desiderio e ossessione. Renato Meneghetti esaspera e dilata, in forme cenestopatiche, il proprio e altrui corpo, organi, arti; li decritta attraverso lastre radiografiche (e affini indagini strumentali) dando loro sostanza pigmentaria, sensitività: dissimulando morfologie e contenuti, decorticando e rivestendo, sospingendo emblemi post-informali in una indagine consona e forme “ritrovate” mixando il tutto con modernità tecnologiche, eludendo però l’asetticità propria del linguaggio scientifico. Dunque è l’uomo, la sua parola corporea, il suo spasmo, a dare materia e liquore, secrezione e dolore; ma anche, a volte, la gioiosa pregnanza della vita che, calata dalle tenebre del corpo, si mostra pronta a consegnarsi nel marchio più vero dell’essenza, nell’ombra vibrante della sua anima dispersa.
Aldo Gerbino