FIGURE DI FANTASIA, FIGURE D’IDENTITÀ
a cura di Walter Guadagnini

All’interno d’un percorso così coerente — pur nelle sue variegate modalità d’espressione, come quello di Renato Meneghetti, non può essere certo casuale il sovrapporsi, nel 1981, di due momenti di ricerca fondamentali quali l’edizione del libro fotografico «Insania» e l’apparizione delle prime radiografie, esemplificate nel grande «Ritratto di Anna», sorta di incunabolo d’una lunga teoria di opere a venire. Non può essere casuale, tale coincidenza, soprattutto perché ambedue i lavori, pur nella sostanziale autonomia linguistica e nell’altrettanto inevitabile diversità d’immagine, rimandano a una radice comune, a quella prassi operativa la cui codificazione avviene intorno alla metà dell’Ottocento, quando la catena di esperimenti tesi ad arrestare le immagini realizzate dalla luce su una superficie, a tal proposito predisposta, giunge finalmente a dare i risultati sperati. Opera di scienziati, di dilettanti di genio, prima ancora che di artisti; ricerche a metà strada tra scienza e alchimia, dove la scoperta della proprietà d’una sostanza chimica vale quanto la capacità d’inventare un’immagine; ricerche che si trasformano in storia e in strumenti, utili a Flaubert come alla polizia giudiziaria, al medico come all’astronomo come al viaggiatore. E, quando la storia è scritta, i ruoli ancora possono confondersi, Marey a fianco di Bragaglia, Rontgen a fianco di Baraduc, i fratelli Henry a fianco di August Strindberg, quali gli scienziati, quali gli artisti, quali gli impostori?
Non è un caso, allora, la coincidenza tra un libro di fotografie en travesti e un’opera di travisamento degli esperimenti di Rontgen in chiave puramente creativa. E’, piuttosto, l’affermazione immediata della coscienza chiara che Meneghetti ha della duplice funzione e natura del mezzo fotografico — nelle sue varie declinazioni, del suo essere insieme testimonianza e menzogna, realismo supremo e falsificazione totale, della sua impossibile innocenza. Ed è su tale ambiguità fondativa che fa leva Meneghetti, come sempre è accaduto all’interno della sua ricerca: da un lato l’ostensione dell’immagine, il suo svelamento in chiave comunicativa, dall’altro la sua manipolazione, la trasformazione di quella stessa immagine in qualcosa d’altro — non tanto, o non solo, in una nuova immagine, ma in un nuovo meccanismo della visione, in cui ciò che viene messo in discussione è il valore originario dell’immagine primigenia, in buona sostanza il contesto ela funzione per cui essa è nata.
«Insania» è, in fondo, un libro di ritratti, e di quella, particolare forma di rappresentazione che è l’autoritratto. Ma il risultato finale di quell’operazione volutamente tradisce le attese dello spettatore: i volti di«Insania» non dicono nulla sull’autore, sulla sua psiche, sul suo ruolo all’interno della società; sono, rispetto a Meneghetti, volti muti. Sono, piuttosto, una versione aggiornata del je est un autre di Rimbaud, sono la possibilità dell’altro di farsi volto attraverso l’autore, in un paradossale corto circuito comunicativo le cui nobili ascendenze non sono difficilmente rintracciabili. Alcuni anni orsono, una bella mostra alla Schirn Kunsthalle di Francoforte s’impegnava nella ricostruzione d’una vicenda complessa e affascinante come quella dei rapporti tra«Okkultismus und Avantgarde» tra il 1900 e il 1915. Tra riflessioni intorno alla figura di Steiner e revisioni delle opere dei grandi padri dell’avanguardia storica in chiave spiritualista, da Munch a Kandinsky, da Mondrian a Malevic, ampio spazio era lì dedicato a tutti quei fenomeni d’ordine scientifico e parascientifico le cui manifestazioni s’erano intrecciate con quelle artistiche. Lì, in quel contesto, un’opera come «Io-noi» di Boccioni andava a incontrarsi con le fotografie di fantasmi realizzate durante le sedute spiritiche, i fantasmi dipinti da Munch vivevano a fianco di quelli che apparivano — non si capisce quanto volontariamente — nelle fotografie scattate dallo stesso artista. E, nello stesso periodo, i raggisti russi si presentavano con il volto dipinto, ancora una volta tra sciamanesimo e provocazione teatrale: è in questo crogiolo europeo— ma con riflessi importanti anche negli Stati Uniti, se si pensa ai«Balzac» di Steichen —, che il volto, e insieme ad esso il corpo, diviene il luogo della mutazione prima ancora che dell’identità. C’è un’immagine di «Insania», «Io, la società», che rimanda esplicitamente a una celebre sovrimpressione di Wanda Wulz, «Io+gatto» del 1932, ma è l’intero clima futurista che sembra fare capolino nel lavoro non solo fotografico di Meneghetti, se si pensa a una frase come «spettralizzazione di alcune parti del corpo» appartenente all’autobiografia di Tato edita nel 1940, alle fotografie dello stesso autore come «Il perfetto borghese. Camuffamento di oggetti» del 1933 o ancora, per ritornare alle origini della vicenda, al fotodinamismo di Bragaglia, ineludibile punto di confronto per una poetica come quella di Meneghetti sul corpo.
D’altra parte, risulta difficile sottrarsi alla suggestione del gioco di parole, del rimando tra immagine e testo così caro all’autore stesso, e non ricordare come Man Ray significhi letteralmente «Uomo Raggio»,e sottrarsi di conseguenza ai suggerimenti che provengono dai suoi rayographs così come, e forse ancor più, dai suggerimenti che vengono dall’intero percorso creativo dell’autore di«Emak Bakia». Un analogo disprezzo per la specializzazione, in favore d’un lavoro sui margini delle discipline, sullo sconfinamento inteso come autentico cardine di poetica; il rifiuto della «sperimentazione» in quanto tale — già evidenziato dalla gran parte della ricca bibliografia dedicata a Meneghetti —, riassumibile in una delle tante sentenze apodittiche di Man Ray, «Io non cerco, io immagino»; lo scorrimento tra i linguaggi come prassi naturale e necessaria, e non come abbigliamento e aggiornamento sull’attualità; l’attenzione, infine, alle figure provenienti dall’esterno dello studio, la ricerca di una comunicazione immediata, per quanto straniata, con lo spettatore.
Ma, allo stesso tempo, è d’obbligo sottolineare le differenze che corrono tra i due, prima tra tutte proprio quella che si può riscontrare in una lettura parallela tra i rayographs e le radiografie di Meneghetti. Il rayograph corrisponde, in estrema sintesi, ai principi del ready made, presuppone un’ggiunta di valore semantico affidata nella quasi totalità allo spettatore e una svalutazione di base del valore operativo, in una logica che, almeno nei suoi assunti di base, finirà poi per essere la logica delle indifferenze processuali e dell’indeterminacy, tipiche di una parte cospicua della ricerca artistica degli anni Sessanta sul versante concettuale, mirante alla smaterializzazione dell’oggetto artistico (come recitava un celebre saggio di LucyLippard).
Per Meneghetti, al contrario, la radiografia non si esaurisce in se stessa, né dal punto di vista fabrile né da quello concettuale. La radiografia è, anzitutto, la base di partenza dell’opera vera e propria, non è l’opera stessa (come poteva ad esempio accadere in un lavoro come «Dodici radiografie del mio corpo» di Eliseo Mattiacci). E’ un particolare, non il tutto. E’ il processo di elaborazione quello che dà valore finale all’opera, che compie — letteralmente — l’immagine. E in questa fase accade un evento determinante: l’elaborazione muta la radiografia da documento di una realtà — quella di un determinato corpo umano — a falsificazione della realtà, in vista della creazione, dell’invenzione, di una realtà «altra», di un’immagine che comunica non più la natura dell’operazione compiuta dalla luce sulla lastra, ma la natura dell’operazione compiuta dall’artista nello studio. Se, a proposito dei rayographs, Tzara poteva scrivere che «les objets revent», per Meneghetti si potrebbe scrivere che sono i corpi a sognare. A sognare un altro destino, che non si concluda necessariamente con la morte e la decomposizione, che possa prolungarsi oltre i termini dell’esistenza terrena d’ogni singolo frammento di corpo rivelato dai raggi (sebbene alcuna intenzione misticheggiante sia leggibile nell’operare di Meneghetti, è curioso notare come, di fronte a un tema così caro all’arte sacra come quello della vetrata, l’artista abbia deciso di eleggere come «soggetto» primario proprio quello delle radiografie, una sorta divanitas al contrario, intrisa di disincantato e ironico ottimismo).
Una rivelazione, quella dei raggi, che peraltro subisce anche il processo straniante della colorazione, ma che trova il suo apice di voluto tradimento dell’originale nelle titolazioni delle opere, ricche di riferimenti letterari— e culturali in senso lato —, in grado di modificare radicalmente il significato stesso dell’immagine di partenza. Si torna dunque qui al tema portante della storia della fotografia cui s’accennava più sopra: e non è un caso se un autore come Joan Fontcuberta — forse colui che con maggiore lucidità ha in questi ultimi anni teorizzato e praticato il «falso» attraverso la fotografia, o per meglio dire, ha fondato le proprie riflessioni e la propria pratica sull’impossibilità di distinguere reale e finzione in ambito fotografico — se un autore come Fontcuberta, si diceva, ha frequentato tutte le tecniche della cosiddetta fotografia off camera, rivelando i meccanismi di costituzione dell’immagine e, allo stesso tempo, svelando l’importanza determinante del contesto all’interno del quale la fotografia viene posta. Se i moscerini sul vetro anteriore di un’automobile possono diventare una mappa celeste, se le impronte lasciate da due galli sulla carta sensibile possono dare vita a una composizione astratta, allora anche le ossa possono divenire elementi di un paesaggio immaginario, ma quanto mai reale se accompagnato da una didascalia sufficientemente fuorviante e da un intervento pittorico d’analoga impostazione.
Esiste però un’ulteriore elemento, all’interno di questo processo, che non può venire dimenticato, pena la riduzione di queste opere a un esercizio d’ordine puramente linguistico o estetico, e si tratta del valore per così dire etico conferito da Meneghetti alla scelta di servirsi della base radiografica. La base radiografica è infatti, per Meneghetti, il termine per giungere all’invisibile (ancora, Okkultismus und Avantgarde ...), a ciò che sta al di là delle apparenze, a una identità che, seppur manipolata, rimane comunque l’ossatura — letterale, in questo caso — della presenza al mondo. Rivelare ciò che è nascosto, ma, più ancora, ricreare attraverso una traccia l’interezza di un’esperienza, fino agli estremi degli autoritratti del 1989, al «Ritratto intestino di Renato» del 1992 e ai ritratti «in forma di luna»del 1996. Je est un autre qui non è più sufficiente: si tratta, ora, di ripercorrere una vicenda di opere come impronte che hagià visto giustamente citare i nomi di Recalcati (Sgarbi) e di Klein (Gualdoni), al quale pare di poter aggiungere qui l’esperienza di Giovanni Manfredini e dei suoi «Tentativi di esistenza» (che altro sono, in fondo, anche queste opere di Meneghetti?) e quella di Paolo Gioli, in particolare di un suo ciclo recente, quello degli «Sconosciuti» (ma in realtà, un confronto tra l’intera opera di Gioli e quello di Meneghetti potrebbe fornire più d’uno spunto di riflessione). Merita di rileggere la nota dell’autore a proposito di questi lavori: «Ho avuto in dono molti negativi su lastre e pellicole, da un vecchio studio che ha chiuso. Tutte le immagini rappresentano volti per carte d’identità. Dall’altra parte della lastra sulla gelatina ho trovato il solito ‘ritocco’ come si usava una volta (anche se siamo già negli anni Cinquanta). Sono tutti volti di sconosciuti, probabilmente molti già morti: donne, uomini, qualche bambino (...) Ho fatto faticose macro-riprese di un riflesso di quei ritratti ‘modificati’, su pellicola 35 mm eliminando poi con le forbici le perforazioni, ricreando così la forma di una lastra, di una nuova lastra personale. E’ stata una lotta con questo misterioso ... autore che ho scoperto e inventato suo malgrado. Da una parte l’immagine del maestro-fotografo, da questa invece per me la vera immagine, la vera identità misteriosa all’altra: una contro-identità. Il volto davanti ignaro d’essere recto-verso, di vecchiezze forse mai raggiunte dissolute nella materia di un riflesso, e occhi che passano dalla mia parte su un viso mai esistito, mai concepito, mai fotografato. Figure d’identità e di fantasia di tre autori in un sol gesto, in combutta creativa».
Ecco, qui sta, probabilmente, la ragione d’essere più vera delle radiografie, la loro necessità anche etica, oltre il processo creativo, oltre gli accidenti che ne provocano la nascita e la configurazione finale, oltre le ascendenze storiche: la volontà d’essere insieme figure d’identità e di fantasia, dove l’una non esclude l’altra, ma, al contrario, l’una si rispecchia, e si riconosce, nell’altra. Nelle profondità della superficie.

Walter Guadagnini
2000