LO SCORRERE DELL’OPERA
a cura di Gabriele Perretta

“Il significato delle immagini della memoria dipende dal loro contenuto di verità. Sinché si riconnettono alla vita incontrollata degli istinti, è insita in esse un’ambiguità demoniaca. Tali immagini sono, in quel caso, opache come un vetro matto attraverso il quale penetra alcun bagliore. La loro trasparenza aumenta nella misura in cui la conoscenza rischiara la vegetazione dell’anima, limitandone la costrizione naturale. La verità, difatti, può essere scorta soltanto da una coscienza emancipata, capace di controllare il demonismo degli istinti.”
Siegfried Kracauer

In ogni epoca storica l’artista è stato chiamato a dare il suo contributo sotto forma di proposte, di scelte linguistiche, di impegno all’immagine. Questo compito è diverso per ogni momento storico e può essere più o meno rappresentativo se aderisce ai segni del tempo in cui viviamo. Senza dubbio, l’artista postmoderno è chiamato a impegni di ricerca e di partecipazione alla cosa artistica estremamente ardui. Se si è convinti che non si può progettare il futuro dell’opera senza conservare almeno un’impronta, un’orma del passato, si deve pure ammettere che è molto difficile trovare la formula che dovrebbe collegare l’eredità del passato alla costruzione di un’opera che verrà.
Rispetto a queste possibilità di lavoro, negli ultimi decenni si sono orientate due figure di artista: una che ha guardato in maniera propulsiva in avanti e un’altra che ha preferito sposare una forma di disorientamento, sentimento che oggi accomuna una folta schiera di operatori estetici, a prescindere dalle ideologie e dai consueti modelli operativi. Gli sguardi dell’artista contemporaneo vengono fuori da questa fonderia di certezze e di incertezze. Pur non essendo mai il risultato di una quantità di mezze misure, che non possono avere uno stesso centro e uno stesso punto di riunione, le attitudini dell’artista contemporaneo sono votate alla valenza circolare, alla comunicazione che si avvale di tutte le carte da gioco del sapere e della conoscenza visiva. Nel suo bagaglio di esperienze entrano continuamente tutte le tecniche di trasmissione del linguaggio. In questa repubblica delle lettere e delle arti del secondo ’900, bisognerebbe includere anche la vita e il lavoro, l’avventura, di Renato Meneghetti, un impavido artista veneto segnalato da Fontana come un “giovane positivo”. Sin dalla prima metà degli anni Sessanta fino agli ultimi giorni di questo secolo, egli ha attraversato tutti i territori della comunicazione. Ha esordito con una pittura di gesto (1962), ha incontrato le suggestioni del dissolvimento dell’immagine (monotipi), è passato per gli esperimenti del collage, dell’affresco, per i tratti della pittura materica, per poi approdare a quelli che lui ha battezzato (e da cui si è fatto battezzare) gli Elementi fagocitanti e le Macrofagocitatrici.
È indicativo che una buona parte del lavoro di Meneghetti prende le mosse dalla nozione di fagocitare. Il termine scientifico, che in senso figurato sta per inglobare, assorbire, viene dalla proprietà di alcuni organismi animali detti fagociti, ovvero in grado di inglobare, appunto, e digerire con movimenti ameboidi nel loro protoplasma microrganismi, corpi estranei, cellule della stessa specie destinate alla morte. Nei piccoli animali la fagocitosi ha una funzione nutritiva, in quelli superiori costituisce una funzione di difesa cellulare dei tessuti e dell’organismo per proteggersi da malattie infettive. Meneghetti, infatti, tra l’inizio degli anni Settanta e il 1977, dopo aver esteso il suo lavoro a una composizione più concettuale e dopo aver allargato i confini tecnici all’attività del cinema e del design, frantuma ossessivamente le Fagocitatrici alla ricerca di quelli che chiama Elementi fagocitanti. Egli stesso nel 1980 si firma “il fagocitato”, per rinnegare poi qualche anno dopo questa autodefinizione. Il fatto che Meneghetti usi tutto il bagaglio del pittore, dello scultore, del regista, del fotografo e del musicista spiega abbondantemente ciò che prima indicavamo con il processo previsto dalla nozione scientifica di fagocito. Meneghetti pur partendo dalla pittura si ingloba nelle altre tecniche le assorbe. Così come “assimila – dice Lucio Fontana – a fondo le esperienze dei maggiori esponenti dell’arte contemporanea, integrandole, nella sua incessante ricerca di una strada”.
Nell’artista veneto ci sono due alternative di percorso: una muove dai passi lineari della pittura, e da essa si apre alle esperienze di contaminazione più diversificate, e una seconda che tra le ‘divergenze parallele’ dalla musica, dalla fotografia, dal cinema arriva comunque alla pittura. Qui la pittura è un punto di partenza e un dispiegamento di forze motrici in grado di calpestare la sua unica attitudine per realizzare delle sinergie. Infatti la ricerca musicale del 1981-1982, nata dal progetto Insania, presso il Centro di Ricerca Sonologico dell’Università di Padova, e il libro-disco, entrambi presentati alla Biennale Musica di Venezia del 1982, i documentari in 16 mm, la riduzione teatrale accolta in Patavanitas sono tutti elementi di sfogo che vogliono aggredire le superfici delle arti da più punti di contatto. Il periodo di lavoro che si svolge, appunto, intorno al 1980, e che Meneghetti sintetizza nella formula “Avere o Essere”, dato che mutua un libro famosissimo di Erich Fromm, ci dà la possibilità di glossare in maniera trasversale sulle potenzialità della sua opera. In sostanza, facendoci condurre un po’ dai ricordi e dalle citazioni di Lao-Tse, Meister Ekhart e Marx, che Fromm riporta all’inizio del volume, possiamo ribadire che il valore dell’uomo, secondo il testo, è deducibile non in quello che ha ma in quello che è. Per Fromm, l’uomo d’oggi tende a estinguere l’esperienza soggettiva e stabilisce con le cose un impersonale rapporto di avere o non avere. Quando si vede il paesaggio del mondo come una grande costellazione arricchita dal do ut des, l’uomo diventa estraneo a questo palcoscenico, si finisce per accettare la reificazione dentro di sé. Come il mondo esterno appare alla figura umana disegnato da cifre che indicano il possesso o meno, così la sua vita interna si sdoppia in esalazioni mostruose, che l’uomo trova in sé, in quanto non ricorda di averle prodotte con la sua attività. Allora l’essere non c’è più, la persona contemporaneamente è svuotata, il corpo che lo anima contiene solo dei frammenti di una solitudine senza spessore, un’infelicità affollata di cose che scuotono i suoi sensi, ma che non gli riempiono l’anima o, meglio, il vuoto, la voragine buia e profonda, entro cui gli sembra di precipitare appena si sottrae al frastuono della realtà piatta e banale.
Tutto questo percorso filosofico serve a chiedersi che cosa può fare l’arte se non riscoprire l’essere, o far avvertire all’altro che noi siamo prima ancora di avere. Anche l’arte dovrebbe essere un risultato fattivo di ciò che siamo, più di ciò che abbiamo. Puntualizzare la risonanza dell’essere nel senso dell’opera non significa però evitare di confrontarsi con una potenzialità strumentale che permette la realizzazione dell’opera. E l’attuazione di questa potenzialità è strutturalmente formata dal contributo della tecnica, di cui Meneghetti non ha disdegnato l’operosità. Al di là di una sterile meccanizzazione, che potrebbe vedere l’opera realizzata attraverso il solo contributo tecnico, diciamo pure che essa sia quando si è avvalsa di strumenti più duraturi e memoriali come la pittura e l’architettura o la musica, sia quando ha utilizzato medium più effimeri e incostanti come il cinema e il video, ha comunque reso evidente che la conquista dell’immagine è una possibilità legata ai giochi dello sguardo tra creatore e spettatore, tra colui che inventa e causa la realizzazione e chi non fruisce passivamente e interloquendo con l’opera realizza il proprio ascolto e la propria opera.
Tali esortazioni mi sembra che abbiano attraversato come un torrente il senso del lavoro artistico di Meneghetti, visto che ha avuto modo di richiamare lungo il suo percorso queste categorie. Fromm si chiede e ci chiede cosa fare per riconquistare il proprio essere e, dato che l’arte è una traccia dell’essere stesso (o meglio dovrebbe essere tale), permette all’arte stessa di domandarselo. Il primo obiettivo suggerito da quel libro del 1976 era “quello di non esercitare il controllo sulla natura, bensì sulla tecnica e le forze e le istituzioni sociali irrazionali che minacciano l’esistenza della società occidentale, se non dell’intera specie umana”. Il secondo suggerimento che presupponeva Fromm riguardava la costruzione della “nuova scienza umanistica dell’uomo” , dove fosse possibile dividere tra i bisogni fagocitati e quelli imposti dall’artificio passivo della macchina, distinguere tra patologie e salute psichica. A questo processo di depurazione sembra che si avvii anche il lavoro di Meneghetti che subito dopo l’esortazione dell’Avere o Essere comincia il lavoro delle Radiografie che dura fino ai giorni nostri. La radiografia della pittura, ma anche dell’introspezione, della figura umana, delle possibilità comunicative della struttura ossea interna dell’arte e dei segni che offre l’anatomia sono il risultato dell’elaborazione meneghettiana. Il pretesto di prendere come metafora la fondazione della nuova scienza di cui parla Fromm, non è un atto di presunzione per intellettualizzare il quadro, cosa quasi impossibile, ma di permettere al segno umano di affrancarsi dalla modalità esistenziale dell’avere e di riappropriarsi della modalità esistenziale dell’essere. Un’utopia per l’atto artistico contemporaneo che ha bisogno di questa scaltrezza per porre dubbi e interrogativi al mondo, in cui tutti siamo costretti a vivere, ma che forse a nessuno di noi piace così com’è, soprattutto agli artisti che vorrebbero trasformarlo. Nelle Radiografie vi è custodita una necessità di scrutare gli organi interni, di selezionare con i raggi Roentgen qualcosa di inesplorato nel calore, nel colore e nella forma che è inaccessibile all’occhio nudo. Un insegnamento di Fontana c’è stato, dopo la fenditura della tela la superficie andava scrutata nella sua silenziosa bidimensionalità trasparente, radiante. Del resto è lo stesso Meneghetti ad avvertirci della precarietà del suo atto. Un gesto che è dovuto ai poeti e ai pittori. Basta riprendere le parole di Alberto Folin per capire quanto sia importante il veicolo della poesia, della pittura e forse del ‘silenzio’ in questo percorso, oppure basta seguire le parole dello stesso Meneghetti: “ma è il mezzo di linguaggio assunto e da me portato avanti che mi qualifica e di cui mi importa. Ho anche superato la singola mistificazione del fotogramma; mi sono lasciato alle spalle l’intervento tecnico su lastrino o in diretto rapporto con esso, per ottenere un risultato estetico concepito e voluto, per operare ben altre mistificazioni…” (1987).

Gabriele Perretta - 1999