È possibile tradurre il corpo in colore? È possibile, per esempio nella pittura di Renato Meneghetti. Mi sembra questo, anzi, il centro più singolare della sua policentrica ricerca: una ricerca che ha preso inizio da una rappresentazione figurativa, ma si è poi mossa anfibia lungo questi ultimi decenni, fra architettura, design, performance, sperimentazione concettuale. E, appunto, pittura.
Il corpo come colore, dunque. Nelle Radiografie di Meneghetti i particolari realistici, anzi ultrarealistici (che cosa c’è di più fedele al vero di una fotografia ai raggi X?) diventano il punto di partenza per una declinazione visionaria delle forme, per un viaggio dentro e oltre il corpo. La forma anatomica, insomma, diventa ombra, alone, spettralità. Diventa un paesaggio allarmato, fra sogno e incubo, quasi un fondale di albe oniriche e di tramonti mentali.
Proprio questo sguardo di Meneghetti si rivela confusivo. Confusivo (non confuso, che è ben altra cosa) esattamente come era confusivo lo sguardo del piccolo Hans, di cui parla Freud. Il rocchetto con cui il bambino giocava poteva di volta in volta diventare suo padre, sua madre, lui stesso. E qualcosa di simile avviene nella pittura di Meneghetti. I suoi arti-fantasma, che vengono indicati nelle didascalie con laconica precisione (cranio, mandibola, testa, avambraccio, colonna vertebrale) danno luogo a forme inaspettate, che possono essere di volta in volta qualsiasi cosa.
Può sembrare di intuire un canneto, di intravedere una cavalletta, di incontrare strani animali formicoidi e immobili. Un sottile senso di vertigine ci cattura, nel constatare la distanza che separa essere e apparire.
Ma torniamo al colore. Siamo abituati a pensare alla statuaria classica nel candore del marmo o nella luce oscura del bronzo. E invece l’archeologia ci ha dimostrato che, come i templi greci erano colorati, così anche le sculture avevano occhi, labbra, capelli ottenuti con inserzioni di materiali diversi e con sottili effetti cromatici. Patine e pigmenti, poi, arricchivano la dimensione coloristica. Una simile inversione di prospettiva ci è richiesta anche dall’opera di un artista assolutamente lontano dalla classicità, come è appunto Meneghetti. Le ossa non sono più grigie, le varie parti del corpo non hanno più un carattere cromatico prevedibile. Tutto si trasforma, tutto è preda di un’inspiegabile metamorfosi.
Non si deve pensare, però, ad effetti estetizzanti. Al contrario, mi pare che proprio queste fantasmagorie di toni evaporanti, questi caleidoscopi di viraggi fosforescenti sottolineino, anziché la bellezza, una condizione di precarietà e di inadeguatezza del corpo, e dunque dell’esistenza.
Meneghetti non cerca il colore perché sia bello. Cerca il colore perché il colore, come ogni forma di luce, è legato a un tempo momentaneo, provvisorio. Muta, si accende, si spegne.
Così il viaggio dantesco dentro il corpo ne evidenzia le malattie, la scheletricità, la condizione larvale, la natura bidimensionale e cartilaginea. Il volume è ridotto a superficie: una superficie diafana, che sembra prossima a incrinarsi, a lacerarsi.
D’altra parte, e questo è uno dei punti di maggior novità della pittura di Meneghetti, questa constatazione per così dire scientifica della fragilità umana, questa lucidità filosofica che nasce da un’osservazione empirica, non dà luogo a un teatro dell’angoscia, e nemmeno a considerazioni amare, pessimistiche.
Al contrario, si assiste al manifestarsi di una vena non ironica ma vitalistica: quasi che, da questi lacerti e reperti archeologici (un’archeologia del corpo si può considerare la pittura di Meneghetti) scaturisse un rinnovato amor vitae.
Una strana euforia percorre questa pittura. Già, perché la musa che presiede a queste opere non è la Malinconia, ma è piuttosto la Sibilla. Quello che interessa a Meneghetti è suggerire la dimensione di enigma che si ritrova in ogni cosa. E la visione lenticolare, l’incontro ravvicinato col corpo si traduce in una domanda che non trova risposta.
Il corpo come mistero, dunque. Proprio ciò che ci è più familiare, ciò che in definitiva siamo, è quanto di più sconosciuto esista. E appunto questo è uno degli insegnamenti dell’opera di Meneghetti: un insegnamento su cui c’è sempre da riflettere. D’altra parte mi pare che un altro punto di forza nel lavoro dell’artista sia la sua poliedricità, la sua sfaccettatura.
L’abbiamo già accennato all’inizio di questo scritto. Meneghetti si è misurato con una molteplicità di linguaggi, senza prediligerne nessuno in particolare, o meglio amandoli tutti indistintamente, come figli diversi, ognuno con la propria fisionomia. Leggo nel curriculum dell’artista queste note: “Pittura 1954 -1998; Scultura 1963 -1998; Fotografia 1980 -1981; Musica 1980 -1983; Design 1970 -1976; Architettura 1972 -1985; Performances 1980 -1997; Installazioni 1979 -1999; Teatro 1983 -1985”.
È un elenco meticoloso, filologicamente attento. Che rivela soprattutto una cosa: la necessità di utilizzare modi diversi del dire, appunto perché quello che importa non è tanto la tecnica espressiva, la perizia artigianale conquistata ed esibita nel singolo linguaggio. Quello che importa è dire quanto si è scoperto, quanto si è intuito, quanto vuole essere detto. A ben vedere, la pittura stessa diventa performance, la fotografia diventa pittura, l’architettura diventa teatro. Il corpo (quello dipinto o radiografato) è il protagonista di una pièce misteriosa, di un assolo o di un monologo senza parole, in cui il copione è muto, ma non per questo è meno eloquente.
Leggo in una dichiarazione dell’artista: “Ho anche superato la singola mistificazione del fotogramma; mi sono lasciato alle spalle l’intervento tecnico sul lastrino o in diretto rapporto con esso, per ottenere un risultato estetico concepito e voluto, per operare ben altre mistificazioni…”
Ecco, se è possibile aggiungere un commento a queste parole, già di per sé così chiare, potremmo dire che anche il mestiere, inteso come mistificazione, non interessa all’artista. Quello che gli interessa è piuttosto l’esplorazione di un territorio: il territorio dell’allucinazione, del sogno, del subconscio, del sottinteso, del rimosso.
Questi territori possono essere aggrediti da tanti punti di vista e attraverso tanti linguaggi. Quello che è necessario è che il linguaggio sia il più possibile autentico, e non si esaurisca in tecnicismi, in virtuosismi, in compiacimenti fini a loro stessi. Anche perché si assiste in quest’opera a una sorta di reductio ad unum delle varie grammatiche, delle diverse regole sintattiche. Da un lato si possono vedere i quadri di Meneghetti come opere viventi, come risultato e deposito di una performance.
Dall’altro è lo stesso agire del corpo che diventa pittura. Tutto converge, tutto si tiene.
Quello che ‘non si tiene’ è semmai la fisionomia dell’uomo, la nostra fisionomia, così come si rispecchia in queste opere. È una fisionomia tutt’altro che aulica, nobile, eroica. Per quanto i colori possano essere seducenti, il corpo, nel suo complesso, appare oltre qualsiasi maschera. Eppure…
Vengono in mente le parole di Nietzsche: “Tutto ciò che è umano non è degno di essere preso molto sul serio, ma…” Ecco, l’opera di Meneghetti dà conto insieme di quel “non” e di quel “ma”.
Elena Pontiggia - 1999