IMPRONTE DI UNA POESIA DEL PROFONDO
a cura di Giorgio Seveso

Sfogliare l’ormai vastissima letteratura critica dedicata a Meneghetti può dare le vertigini, poiché è davvero il Gotha della critica di oggi che si è occupato prima o poi del suo lavoro, con nomi celebri e studiosi di fama internazionale. Eppure questo vulcanico, multiforme artista vicentino è, in fondo, ancora quasi ignoto al grande pubblico, appartato e laterale rispetto a quel presenzialismo insistito e caparbio che invece connota gli atteggiamenti di tanti suoi colleghi. Solo in poche ma attente occasioni, infatti, il suo lavoro viene riproposto organicamente. Ma si tratta, sempre, di mostre sapientemente collocate in sedi prestigiose, non “di circostanza”, scelte di solito sull’onda di un grande tema, di un soggetto complessivo che Meneghetti svolge traversando e combinando tra loro sovranamente, ormai da anni, i linguaggi e le tecniche d’espressione più diversi. O, quasi fossero messaggi intriganti e misteriosi racchiusi in una bottiglia, facendo giungere per posta, ogni tanto nel corso degli anni, ai critici e a un gruppo selezionato di operatori d’arte contemporanea e di connaisseurs, un libro, un disco, una video-cassetta...
La stranezza del nostro attuale “sistema dell’arte”, che come è noto spesso promuove fino alla noia molti talenti della ripetitività tralasciando di occuparsi adeguatamente di chi davvero ha cose da dire, e originali, si manifesta dunque anche per lui.
E proprio a fronte di ciò può venire alla mente il fatto che esiste oggi nell’arte contemporanea, un po’ appartato, in parte defilato rispetto ai clamori abituali, una sorta di mondo a sé, di mondo speciale. E’ tutto quel settore di attenzione, di sensibilità e di indagini espressive che non hanno rinunciato, se vogliamo dir così, alle ragioni più serie dell’immagine, radicate nella sostanza di una ricerca che non sia fine a se stessa o, d’altra parte, soltanto dipendente dai propri esiti di mercato e che, dunque, viene a trasferire proprio l’immagine e i suoi destini più sul terreno dell’etica che su quello dell’estetica soltanto. Un mondo in cui il gesto creativo (che sia, come appunto nel caso di Meneghetti, pittura o scultura o installazione o, soprattutto, trasfigurazione dell’idea stessa di radiografia) è davvero rigorosa distillazione di stile, costante esercizio di pensiero e di cuore, risultato di una straordinaria concentrazione di ogni risorsa emotiva e razionale.

Ed è proprio tale concentrazione emozionante ed emozionata, questa seduzione inquieta e inafferrabile che, appunto nelle sue elaborazioni tratte da lastre a Raggi X, lentamente e soavemente penetra tra le pieghe dell’attenzione del riguardante, ne sorprende i pensieri, ne sovverte la pigrizia dello sguardo, ne brucia a freddo l’immobile contemplatività, costringendolo a prendere posizione rispetto all’ambiguità del vedere, turbato dall’arcano combinarsi delle immagini, affascinato dalla flessuosa ieraticità delle forme e delle trasparenze che l’interrogano. Tele grandi o piccole, emulsionate o pigmentate, carte, stendardi di trasparenza e d’inquietudine, resi ancor più conturbanti dall’enigma spiazzante di titoli che richiamano il tono di una dedica d’affetti domestici, queste sue radiografie a un primo impatto potrebbero richiamare John Heartfield, i fotomontaggi e le lastre radiografiche che l’artista tedesco dallo pseudonimo inglese realizzò negli anni 30 e 40 contro il nazismo e la violenza della guerra. E senza dubbio c’è qualcosa di Heartfield in lui, nella misura in cui c’è anche qualcosa di brechtiano nel “metodo” dei due autori. Cioè un diffuso sentimento del tragico, dell’ironico e del grottesco, ma anche un senso di estraniazione, di algido distacco concettuale. E, insieme, sullo sfondo, un sense of humour distante, che scompone e ricompone la realtà, restituendole il suo più intimo significato, la sua verità più cruda oltre le esteriorità di comodo, oltre la pelle e il corpo delle cose: una fantasia razionale, energica e dissacratoria, che sbriciola i miti dell’apparenza e ne mette in evidenza le contraddizioni, le sordità, le piattezze. Ma a fronte dell’allarmato, energico impatto psicologico suscitato dall’emozione delle sue immagini un altro richiamo si affaccia, come un’eco parallela. E il pensiero va alle cosiddette Macchie di Rorschach, quella tecnica proiettiva della psicodiagnostica di un po’ d’anni or sono che consiste nello studio della personalità per il tramite dell’osservazione di macchie simmetriche casuali, sulle quali il soggetto, interpretandole, proietta appunto il proprio mondo fantastico e immaginativo, il proprio modo di percepire, introiettare ed esternare la realtà. Solo che qui, malgrado affinità talvolta assillanti, non è la casualità a essere operata e agita, bensì una precisa progettualità introspettiva della composizione. E in questo senso, ben lungi dall’appiattirsi nella meccanicità di un simile parallelismo, queste sue figure simultaneamente riportano alle sorgenti stesse del fare pittorico, alle radici della dimensione comunicativa del dipingere contemporaneo o, in altre parole, se volete, alla genesi delle sue conseguenze liriche. Perché in filigrana a tutto il suo lavoro c’è qui, palpitante, prevalente, un forte sentimento della pittura, il suo gusto trionfante, che muove ogni sensibilità di Meneghetti verso la compiutezza di un gesto sovranamente pittorico anche quando i mezzi tecnici impiegati, tra alcool e sintetici, solo tangenzialmente consentirebbero l’uso di questa parola.
Ecco, appunto, l’arcano e la magia dell’operazione, ma ecco, anche, l’intrigante suggestione, la seducente efficacia di catalizzatore emotivo e psichico di questi nuclei organizzati e reiterati di segni forme e colori. Nuclei significanti per via di emblematizzazioni e rastremazioni, che scavano percorsi archetipi nelle nostre più intime sostanze antropologiche.

La mano, il cuore, la mente (tutta la mente beninteso, quella conscia e l’inconscia) di Meneghetti dipanano, dunque, itinerari della memoria e della cronaca, scoprono regolarità e difformità, costruiscono regole, delineano ritmi e iterazioni, costituiscono significati, esiti emozionali. Proiettano su questi fantasmi i fantasmi loro propri, minuetti enigmatici della fantasia senza leggi di tempo e logica, come per una sorta di prefazione a un racconto esistenziale, a un diario di emozioni da degustare con calma, da osservare senza fretta, dando loro tutto il tempo che occorre. Ed ecco dunque che, come per una scrosciante metafora visiva, questi suoi “negativi” riconsiderati dal fondo del sentimento più acuto, queste sue monadi sopraffatte dall’intuizione delle cose, immediatamente fermano e coagulano l’emozione in campiture scandite, in sudari misteriosi, in impronte corporali di sintesi, reperti d’uno scabroso puzzle psicologico ed esistenziale di straordinaria consistenza tattile. Serie d’immagini che si inseguono e si ripetono, e che, appunto nella ripetitività, giocano ogni loro sperimentalismo significante, ogni fibrillazione evocativa in una poesia radicale, in un lirismo oscillante tra astrazione concettuale e soggiacente persistenza della figura, tra antropomorfismo e dilatazione percettiva dell’immagine.

Rispetto a questo incalzante repertorio, che in lui risponde dunque a un impulso profondo, si tratta di individuare e di segnalare il denominatore comune, il mastice che sostiene l’operazione in tutto il suo indubitabile fascino, fatto di una sua grazia pungente, di una sua seduzione febbrile.
Che potrebbe essere indicato direi, tale denominatore, in una viva percezione della sedimentazione esistenziale, cioè dell’accumulo lento e perenne dei materiali psicologici che la vita nel suo fluire abbandona sul fondo della coscienza, lastricandone le memorie inconsapevoli in cui piantano radici i sogni. E’ proprio la traccia di questo limo sottile e impalpabile a essere ricercata, come in un muto colloquio tra l’autore e i suoi materiali, nelle sue opere, in ogni forma, in ciascuna immagine. Che dunque vivono, questi materiali e questi lavori, pur nella loro esemplare autonomia estetica, anche come pregnanza di simbolo, come portato e traslato di una cronaca biografica, dicevo più sopra, che, in questi termini, da diario possibile si fa però anche sentimento condiviso, traccia più universale, storia ed emozione di tutti.

C’è qui, difatti, qualcosa che trasforma la seduzione della manualità dell’arte nel senso di una interrogazione universale: qualcosa che permanentemente richiama l’ombra di un presagio, come il respiro di un sogno o di una visione. E che, di questa evanescente intuizione in atto, rende l’artista ambiguo e sibillino testimone a nome e per conto di noi tutti. Questo suo fare così eclettico dentro la natura del corpo, degli oggetti e delle idee, questa sua poesia d’impulso e di meditazione, è infatti intessuta di una facoltà di rovesciamento, di estraniamento, di sorprendente narratività. E per questo si muove costantemente sul crinale di un forte spiazzamento linguistico e narrativo, voluto e cercato tra concitazione lirica e contemplatività classica, partecipando alla vertigine di una inventività poetica dilatatissima e assoluta, resa ancor più intrigante dal fatto che i riferimenti alla realtà oggettiva, alla realtà vera, sono puramente speculativi, metaforici, simbolici.
E’ talmente tale e tanta la sua ansia di ricerca espressiva e formale, il desiderio vivo di un sempre più efficace rapporto tra idea e forma, tra sentimento e risultato, e talmente attivo il suo fervore d’approfondimenti senza limiti, che davvero il lavoro del nostro artista possiede un carattere che chiamerei senz’altro alluvionale, pressante, serrato, giovanilisticamente incalzante, una sequenza alluvionale di immagini profonde, di brividi sospesi tra ombre e luci chirurgiche.

Ma occorre anche dire che tale aspetto, che farebbe pensare a un qualche cosa di ribollente, cioè a un fare arte “caldo” e quasi allucinato, come a una serie di esplosivi flashes rivolti all’esterno e legati a una episodicità casuale, appare, ben al contrario, frutto di una qualità particolare del temperamento, del suo modo di accostare e vivere l’intervento nell’immaginario, che è qualità, invece, diciamo “fredda”. Una qualità che cioè rimanda a una concentrazione molto precisa, intensamente rivolta all’interno, a un progetto globale intimo e interiore, connotato da rigore e metodicità. E che definisce un modo di lavorare e di pensare il lavoro che, lentamente e puntigliosamente, vive dentro di sé l’ambizione anche gioiosa, anche ludica di esplorare minuziosamente ogni sua potenzialità possibile, ogni effetto e conseguenza, ogni deriva.
Tutta un’altra cosa, quindi, dai sacri fuochi e dalle fervorose isterie creative di alcuni suoi colleghi vicini alla transavanguardia ai quali, per linguaggio e modi, per multiformità d’ingegno e di tecniche, per cosmopolitismo d’espressione, per generosità e dissipazioni di segno e di gesto potrebbe tuttavia anche essere avvicinato.

Ecco qui un artista, insomma, profondamente riflessivo, che guarda e immagina le sue cose in una prospettiva come di sguardo potenziato, di super-osservazione capace di farsi oggetto di forme evocative, innesco di suggestioni, di stimoli, di allusioni...
Perché l’intimo lavorio interiore di Meneghetti di fronte alle materie della sua immaginazione e all’assorto gesto del figurare comporta un terreno di comunicazione che non può porsi solo sul piano dell’estetico: implica, come condizione, che lo spettatore ricostruisca, dinanzi all’immagine, la trama sottostante di significanti, di evocazioni, di simultaneità e compresenze allusive. E’ per questo che, nella concentrazione dei sentimenti e del pensiero fantasticante, i soggetti inseguiti nelle sue rappresentazioni non valgono mai soltanto per ciò che rappresentano. Il vero tema di questi soggetti, in altre parole, non è mai soltanto ciò che è “detto”, ma intende porsi ben oltre al loro valore di mero simulacro, aprendosi (e stimolando la nostra attenzione ad aprirsi) verso ulteriori vibrazioni significanti, verso altri, e più sepolti, livelli, come per una sorta di elementare eloquenza primaria, sorgiva. Una eloquenza, dirò, che suona per me come disponibilità della fantasia (e specificamente di quella parte così particolare e intrigante dell’attività fantastica che è costituita dall’immaginare non solo pensieri o sentimenti ma appunto immagini emblematiche) a farsi carico del vissuto che ci circonda; a investirsi, quindi, dell’oggettivo che sta nel mondo per restituircene, inverata nell’opera, una traduzione tanto più lirica quanto più soggettiva. Una capacità comunicativa, la sua, tutta terrena, fatta di dimensioni ben concrete e ben terrestri della coscienza e dei sensi, nemmeno tanto dipendente dall’estetica del fare, quanto, e ben più persuasivamente, dalla sua intrinseca, seducente, problematica verità poetica.

Giorgio Seveso - 2000