ALDILÀ DELL’OCCHIO
a cura di Vittorio Sgarbi

Bisogna iniziare ad abituarsi, nella valutazione dell’arte contemporanea, a convivere con la impossibilità di fare valutazioni storiche. Se nel 1934 a Bologna, nella sua prolusione al corso universitario sulla pittura emiliana, Roberto Longhi poteva con grande esattezza di storico e formidabile anticipazione chiudere il percorso dell’arte bolognese con il nome di Giorgio Morandi, da lui perfettamente riconosciuto come un valore assoluto al pari di Ludovico Carracci o di Giuseppe Maria Crespi, oggi, alla fine del secolo che è stato di Berenson, di Venturi e di Toesca, non possiamo più dire niente. Ma possiamo parimenti classificare, prendere atto, catalogare, o dar segno di un gusto personale, diventando critici di tendenza o testimoni di un gruppo, cioè diventandone ‘critici ufficiali’. Così, c’è un critico per l’Arte povera, poi un critico per la ‘Pittura pittura’, c’è un critico per la ‘Transavanguardia’ e un critico per l’‘Arte segreta’, come se questi fossero mondi paralleli e distinti, incomunicanti. Proprio per questo, chi crede che le esperienze fondamentali dell’arte contemporanea si risolvano nei nomi di Kounellis, Merz, Penone o De Dominicis non vorrà riconoscere che questa è anche l’epoca di Salvatore Fiume, di Gianfranco Ferroni o di Giuliano Vangi: autori coetanei, che hanno vissuto la stessa porzione di storia ed egualmente sembrano maturati in dimensioni indifferenti l’una all’altra. Così il critico che avrà sostenuto Wainer Vaccari o Vito Tongiani non potrà intendere chi abbia superato pittura e scultura e abbia favorito l’impegno dell’artista nel gesto, come accade per esempio nell’opera di Lucio Fontana. Proprio da essa, anzi, deriva la particolarissima condizione per la quale ogni evento artistico e ogni ricerca pongono il critico davanti alla impossibilità di assumere una posizione, uno schieramento che sia diverso dal tifo per una squadra di calcio. Ciò che si è perduto è il principio stesso di valutazione dell’opera di un artista. Le perplessità crescono e il ruolo stesso del critico viene messo in discussione: invece di chiarire agli altri, il critico aumenta la complessità dei problemi e instaura in se stesso il dubbio.

Pare esistere per questo l’opera di Renato Meneghetti. Ma come giudicarla e dove inserirla e che importanza attribuirle? Innanzitutto essa non appare un esercizio amatoriale o dilettantesco, come è ormai di molta pittura praticata anche dagli artisti di maggiore notorietà, spesso illustrativi e vaniloquenti.
Se “Dio è morto”, tutto è permesso: da qui parte, come tanta avanguardia, anche l’artista veneto, ma egli sembra trovare la sua strada in quell’aldilà dell’occhio che la radiografia consente. Egli vuol vedere cosa c’è dentro l’uomo, non alla ricerca del suo spirito, ricerca già esperita a partire dal Rinascimento, ma della struttura che regge le cose, del loro scheletro.

La sua pittura è particolarmente originale e si pone a metà strada, nel suo estetismo involontario, tra le impronte di Antonio Recalcati e le emulsioni di Andy Warhol: diverso è il mezzo, ma analogo l’effetto.
La radiografia infatti insegue forme nascoste, sta alla fotografia come il noumeno sta al fenomeno.
Le forme delle mani, degli intestini, del cranio, dell’arcata dentaria, della colonna cervicale rivelano la parentela originaria tra l’organismo umano e l’universo. Le lastre si offrono allora alla pura contemplazione e portano ad intuire non solo le forme prevedibili ma anche un mistero oltre le forme. Qualche cosa di simile avviene nelle esperienze della pittura informale, dove l’opera rivela nella sua forma finale una immagine diversa da tutte quelle da cui ha preso le mosse. Meneghetti riesce tuttavia in qualche cosa che è anche più persuasivo. Per esempio, nel Ritratto di Renato in fase creativa (1996) una successione di immagini del cranio evoca le fasi della luna, suscitando un equivoco visivo alla cui attrazione misteriosa il pittore contribuisce con una sapiente lavorazione cromatica che dà alle forme non il colore atteso, ma un colore inesistente, irreale, ulteriormente straniante. L’autore moltiplica in tal modo il dubbio, assommando l’irrealismo della immagine radiografica e l’irrealismo di un cromatismo non naturalistico.

Sono immagini immateriali, le sue, dove l’uso del colore non è mai prevedibile, si dà in un estetismo non premeditato. Alcuni esiti, per esempio nelle opere che ritraggono la colonna del cranio, hanno una loro definizione formale quasi giapponese, toccano cioè il punto più alto della decorazione e anche il più lontano da ogni necessità funzionale, per cui la radiografia, specialmente quella del corpo umano, esiste.
Se nel suo più recente e formidabile ciclo, le Radiografie appunto, il problema di Meneghetti è l’indagine sulla forma, una forma nascosta e avvertita, resa sensibile ma non pienamente guadagnata alla luce e alla conoscenza, guardando l’escursione intera dell’opera sua ci si rende conto di come, anche quando egli usava strumenti diversi da quelli della radiografia, il cuore dei suoi interessi sia stata sempre la percezione di questa sorta di ultramondo, celato nella profondità dell’anima. Persino nella sua prima giovinezza, Meneghetti definisce identità formali fortemente antinaturalistiche, come si vede per esempio nei suoi esordi nella pittura negli anni Cinquanta o in una serie di affreschi su tavola, le Pareti perdute, degli anni Sessanta, che subiscono evidentemente l’influenza di Burri, con un materismo anche più acceso. Non c’è dunque nulla di informale o di astratto, in questi lavori, c’è invece la volontà di definire una struttura compositiva, quasi architettonica, benché sempre evasiva e non mai perfettamente riconoscibile.

Dunque l’arte di Meneghetti, svolta ormai per quasi mezzo secolo, non ha nulla di sperimentale ma è guidata da una necessità profonda, alla quale, come testimonia proprio la coerenza dei risultati, l’artista non si può sottrarre. Puoi notare questa sorta di seconda natura persino a partire da una serie di piccoli olii su tela, che sono forse le prime opere dell’artista. Si tratta di cose quotidiane, scene semplici, come la Lavandaia al lavoro (1954) oppure poche bottiglie disposte su di un tavolo (La tavola dello zio Nino, 1959) oppure alcuni caprioli presi nel paesaggio (un pezzo del 1964).
La composizione è estremamente semplice, lineare, e fa forza su pochi elementi, come per offrire un fronte di resistenza alla corruzione del tempo. Meneghetti cerca di cogliere l’essenza degli oggetti o dei profili umani (Dawn, 1964), come nella convinzione che nel segreto della forma, nella ‘forma interna’ degli oggetti, sia dispiegata la loro reale natura. Le Radiografie hanno un antecedente piuttosto esplicito, il monotipo, genere che Meneghetti ha coltivato pressoché ininterrottamente dagli anni Sessanta agli anni Ottanta. In essi degli uomini restano poche ombre descritte a inchiostro su un fondo chiaro, pronte a ‘dissolversi’, come recita un titolo eloquente.
Ed ancora dagli anni Sessanta Meneghetti ha cercato di indagare il corpo attraverso riproduzioni tecniche e modulari, come avviene specialmente nei collage.
Qui egli ha ingigantito e mutato in senso innaturale le forme del volto, mettendo in luce la tensione di muscoli o gli zigomi, non volendone restituire la bellezza ma la vitalità. Pesa sui suoi lavori la impressione di un disastro imminente (Antico dolore, 1984), di una tragedia che debba consumare la umanità intera, come una deflagrazione atomica o un incubo immediatamente fatto materia e carne.
Ma essi talora alludono a una pace conquistata e non più contrastabile, intangibile e vitale al tempo stesso, di creature sospese in un limbo pagano (Ritratto di Winston, 1997). Forme organiche svelano eco lontane e il corpo diventa un luogo di vibrazioni. Questo sentimento della realtà come di una parvenza spettrale, uno specchio dello spirito, questo profumo di inferi che l’arte raccoglie come in quintessenza non è semplicemente una inclinazione funebre o l’onda lunga del gusto del simbolismo, ma la ragione stessa della immagine, la sua capacità di evocare la morte in un modo non retorico o teatrale, come con la presunzione di una eternità terrifica e ultraterrena per gli uomini.
Rimane dunque singolare testimonianza di una coerenza di visione il fatto che Meneghetti non abbia perduto il suo campo di immagine, il suo obiettivo, che è sempre quello di una forma sovrannaturale, come è di chi insegue l’anima.

Meneghetti sconvolge gli strumenti e le metodologie della critica ma costringe a riflettere sulla necessità dell’espressione artistica, sulla sua continuità pur nella varietà dei mezzi assunti, ed è testimonianza di una profonda coerenza formale, anche più rigorosa e ascetica di quella che appare nell’esperienza – pur convergente, come abbiamo segnalato – di Recalcati. Infatti, ciò che in Recalcati appare transitorio e instabile, in Meneghetti è principio di un metodo costante che diventa una unità di visione, una visione posta a fuoco su ciò che gli occhi non possono cogliere, e invece lo strumento radio sì. È come se egli lo avesse adottato per vedere di più, per dipingere ciò che non si lascia scorgere: cioè non soltanto l’inconscio o l’emotività o il sentimento, come accade per esempio in van Gogh, ma qualche cosa di fisicamente esistente, di non visibile ma consistente. Forse il riferimento a Munch è quello che può meglio spiegare, al di là di ogni drammatizzazione, la condizione psicologica di Meneghetti, che in termini meramente formali è quella di una armonia compiuta, che vuol essere particolarmente intransigente e non concedere nulla al dilettantismo.
L’impresa di Meneghetti è importante perché – indipendentemente dalla valutazione che non tocca più a noi, destinati ad essere avalutativi – risponde a una necessità vera e non a una ricerca sperimentale. Meneghetti è essenzialmente antiludico e anti-sensuale, perché non vuole, nonostante l’estetismo evidente, catturarti, sedurti, ma costringerti a sintonizzarti con la sua sensibilità, con il suo taglio di visione.

Vittorio Sgarbi - 1999

 

 

CONFERENZA A PADOVA DEL PROF. VITTORIO SGARBI
in occasione della mostra “Giotto e il suo tempo” e “Meneghetti sull'orlo del III Millennio”
Padova Palazzo della Ragione 28 ottobre 2000 – 14 febbraio 2001

Vittorio Sgarbi

…molti anni la mente di Meneghetti è quella di vedere quello che c’è dentro di noi, ma non dentro lo spirito, le emozioni i sentimenti gli amori, cioè quelle cose che appartengono alla natura emotiva, no proprio in modo scientifico; ecco che una parte cospicua di questa mostra è dedicata alle radiografie, fra cui la mia illustrissima schiena, cioè anche io ho una serie di radiografie, non so da dove prese da Meneghetti, che elaborano come una installazione l’immagine della mia spina dorsale; tra i saggi che io ho trovato in questo catalogo oltre al mio, il mio ha un titolo evocativo, “Al di là dell’occhio”, ci sono interventi come quello di Caramel, studioso molto attento alle ricerche non figurative in una sperimentazione che è anche quella su cui si è appostato in questi anni il vostro Meneghetti, quindi una ricerca di una idea dell’arte piuttosto di un’arte che rappresenta la realtà, la realtà dell’arte, l’idea dell’immagine, e allora Caramel scrive “Vedere dentro, vedere oltre”, non dimenticate che uno degli atti definitivi della ricerca artistica della seconda metà del secolo scorso, del novecento, che non è più il nostro secolo ma eppure è il secolo in cui siamo maturati e cresciuti è il gesto di un signore che si chiama Lucio Fontana che va al di là della tela, tagliandola, cercando una dimensione metafisica, metapittorica…
…il saggio di Gillo Dorfles, che è uno studioso di antica civiltà ma agganciata non alla tradizione ma alle avanguardie, lui è uno storico tradizionale dell’avanguardia avendo inteso che l’avanguardia è diventata nel ‘900 talmente, storicamente fondata da essere Picasso o Manray come Giotto e Simone Marini, quindi le avanguardie sono ormai pilastri definitivi con una indicazione che tocca la dimensione psicologica interiore, il saggio di Dorfles è titolato “Radiografie di un destino” perché nelle forme che Meneghetti riconosce c’è come una mappa, una carta d’identità della persona che egli coglie così come poi indica in alcuni titoli che sono trasparenti rispetto ai temi che affronta. Meneghetti è partito molto presto, non possiamo dire quanti anni abbia Meneghetti ma è partito più di quarant’anni fa…

...proprio qui a Padova, proprio in questa sala, proprio per questa mostra, Gillo Dorfles ha dichiarato:

“Le radiografie di Renato Meneghetti sono l'unico fatto nuovo intervenuto nell'arte italiana degli ultimi vent'anni”.
Balthus celebrato a Venezia ha proprio nel 1980 indicato che era possibile anche dipingere e aprire la strada quindi a quelli che si chiamano citazionisti, quindi tante lingue, tante possibilità espressive, da una sperimentazione extrapittorica a un ritorno alla pittura, dalla figurazione all’astrattismo, qualunque cosa, questo per me è stato un momento formidabile perché io che sono uno spirito anarchico ma soprattutto uno storico della realtà dell’arte soffrivo un po’ di vedere i buoni e i cattivi e ancora soffro quando parlo con qualche mia collega e faccio dei nomi e dico ma com’è Merz, “Merz è un genio assoluto”, e com’è Gianfranco Ferroni “Ma, carino”, come se non fossero contemporanei e com’è Kounellis “Un genio assoluto”, e com’è Guccione “Carino”. Appena tollerati alcuni, mentre la mia idea è che se due sono contemporanei uno può essere uno sperimentatore estremo ed extrapittorico un altro può essere un astratto, un altro un concettuale, un altro può essere un figurativo, ma ognuno di questi ha una legittimità, una nicchia nella contemporaneità per cui è giusto che faccia quello che vuole…
…questa apertura della mente si è configurata proprio negli ultimi vent’anni; è chiaro che un artista si pone anche il problema del suo destino, e quindi dice: “Ma io cosa devo fare”? Non per caso alcuni hanno fatto una abiura tale per cui partiti figurativi sono diventati ricercatori estremi. Il caso fondamentale è quello di Fontana che certo non si poteva divertire a fare cinquecento quadri con i tagli, quella era diventata la sua identità, il suo modo di essere riconoscibile, perché un altro grande problema dell’arte contemporanea è il rapporto con il mercato e della qualità che prevale sulla qualità…

…ecco Meneghetti trovandosi nella seconda o terza generazione della contemporaneità avrà per intanto detto quale deve essere la mia sigla ma ha preferito continuare a cercare prima di definire, e poi avrà detto come ogni artista, ma io bisognerà che poi trovi la mia identità altrimenti nessuno sa chi sono…
…credo che l’avventura di un artista oggi sia molto difficile e sia difficile anche una volta che lui ha scelto il suo destino e la sua passione che egli riesca ad agganciare l’idea di contemporaneità perché c’è una specie di mafia dell’arte che stabilisce che quelli vanno bene e quegli altri no, quelli hanno il decoro e la dignità e quegli altri non ce l’hanno. Questa operazione è stata condotta con una violenza degna di una operazione nazista nel corso del 900, proprio epurando intere quantità di artisti, cancellandoli, lasciandoli ai margini, molti nel Veneto…
…purtroppo un artista deve anche dimostrare di continuare a sopravvivere, di galleggiare in questo mare così pieno di velieri che vanno verso il loro destino, in una gara senza fine e una gara soprattutto perché uno senta dire: quello è un Meneghetti. Quello è un Meneghetti credo sia arrivato pur nonostante la sua insaziabile volontà di non fermarsi in una forma, in una sigla ripetuta. Attraverso la scelta della sua produzione più recente che è quella della radiografia e cioè di veder dentro, cioè trovare un’immagine che è la nostra ma in quello che di noi non si vede e quindi la nostra struttura, il nostro scheletro, l’architettura che sostiene il nostro corpo, in questo senso io credo che Meneghetti rimarrà nella memoria di quanti vedono questa mostra vedendo un percorso quasi di mezzo secolo e vedendo che esso perviene a questa identificazione nella quale io credo e penso che egli vorrà continuare la sua ricerca ma non ne sono del tutto convinto perché credo che l’inquietudine e la volontà di non fermarsi, di considerare la sua produzione non come quella di un lago in cui tutto ormai si è posato e definito, ma di un fiume, una visione fluviale della produzione artistica, come dire beh io preferisco l’impurità che non definire uno spazio chiuso nel quale io mi muovo che pure mi consentirebbe come a Fontana di essere immediatamente riconoscibile. Questa mostra, più di quanto io non pensassi dalle immagini viste e dalle riproduzioni è il segnale di una ricerca inesausta, di un tentativo di andare sempre più in là, sempre oltre, ma non soltanto con la radiografia ma anche con il pensiero che vuole cogliere un punto più lontano…
…sono dei risultati, sono degli effetti compiuti in una ricerca che non è ancora perfettamente fossilizzata, non si è chiusa in una sigla definitiva, questo credo che sia positivo per un lato e negativo per lui nel senso che non esiste un Meneghetti immediatamente riconoscibile esiste un clima Meneghetti, un gusto Meneghetti che è quello che vedete in queste pitture che discendono da radiografie…

…ecco questa è la radiografia di un tronco, vedete che viene fuori una forma che non evoca più il tronco come la mia spina dorsale non evoca la mia faccia o non evoca me, è una struttura segreta per l’appunto, ecco io credo che dati questi elementi senza arrivare ad un giudizio, io non potrò dirvi quanto è grande e quanto peserà la ricerca di Meneghetti nella storia dell'arte, ma che sia una ricerca autentica per trovare una strada tra le tante strade possibili di tutti i media che sono stati in questo secolo utilizzati è certo….
…l’arte deve conquistare, una identità formale attraverso qualunque strumento, che sia la pittura pura e tradizionale che oggi rinasce o che sia la ricerca pittorica, ecco io credo che dati questi confini quello che voi avete visto in questa mostra e che io ho potuto guardare qualche minuto fa, sia quanto io posso dirvi e posso dire anche a Meneghetti, nel senso che la mia rimane una valutazione critica di una definizione di cosa debba essere un artista contemporaneo e circa la legittimità, è certo che la sua ricerca in questa contemporeneità possa perfettamente stare…
…Per quello che riguarda la scultura, gli ambienti creati da Meneghetti, che voi avete visto, è un altro punto in cui egli punta all’orgoglio della contemporaneità, e cioè la ricerca di un’immagine che sia primitiva…

…in evidenza lo stretto rapporto fra contemporaneità e primitivismo, ebbene quando voi vedete questi ambienti Meneghetti dove, come dinosauri, come forme arcaiche si muovono queste immagini, avete la sensazione di qualche cosa che cerca nell’essere contemporaneo di sfuggire a ogni tempo, di sfuggire a ogni rapporto con una cronologia riconoscibile e quindi di porsi nella stessa condizione in cui si poneva Picasso rispetto alle maschere negre. In questo senso io credo che una altro modo con cui Meneghetti si è posto il problema di essere autenticamente contemporaneo è quello di scegliere un linguaggio che corrisponde alla sua natura ma si sintonizza con la necessità di un tempo come il nostro.
…quindi c’è un processo di semplificazione, di riduzione a qualche cosa che avete visto poi nello scultore più puro del 900 che è il rumeno Brancusi, sculture astratte ma in una forma pura, ecco questo problema è un altro dei problemi che si sono posati nella mente di Meneghetti che egli ha affrontato nella sua variegata ricerca, ecco io credo che questi siano gli elementi che io potevo porre nella mia lettura dell’opera di Meneghetti, spero che voi ne abbiate tratto, così come da Giotto per altri versi e della storia, una curiosità e una ragione d’interesse. Credo sia difficile aggiungere altro per quella che è la mia interpretazione, sono naturalmente disponibile con Meneghetti la sua idea della propria ricerca…

Vittorio Sgarbi