In Meneghetti l’arte è “catarsi”. Redime !
Renato Meneghetti, concepisce e costruisce l’arte come evento catartico. Il più alto e il più necessario. Ciò vuol dire, allargando il discorso in una visione universale, che l’arte rende sì “bella” la vita, anzi la “salva” (secondo la classica definizione di Dostoevskij), ma attraverso un processo redentivo ”ab imis”, fino nel “fondo”, giù, dal buio.
Si può dire che è nel suo codice naturale, già dai primi segni apparsi nelle caverne: drammatico documento di una lotta “cruenta” per la vita.
Da allora, non si è mai interrotto questo rapporto assolutamente “panico” dell’arte con la vita. Restringendo lo sguardo ai tempi moderni, il “plenum” si ha alla fine dell’ 800, con il filosofo-artista F. Nietzsche e l’ “arte totale” di Wagner.
Poi ci sono le “avanguardie”. Ma il “plenum” rimane. Solo che, nel Novecento, il pensiero e la tecnologia affidano esperienze ed espressioni non più allo stretto perimetro delle immagini (sempre più inflazionate e debordanti), ma anche a prontuari simbolici straordinariamente ricchi e semantici.
Inseriamo a questo punto il problema dell’arte, del sacro e del contemporaneo; e del loro rapporto sul tema dell’arte “redentiva”.
E’ chiaro che gli scenari sono cambiati, dopo secoli di gloriosa “santa alleanza”. Con la “questione romana” e il “Sillabo” (documento magisteriale di Pio IX, 1864), il sacro e il “profano” non sono più due facce dello stesso mondo, ma due mondi, diversi, lontani e, talvolta, ostili.
L’arte e gli artisti ne sono coinvolti. Il distacco si fa uno “strappo”, lacerante e doloroso, “il dramma dell’epoca moderna” come lo definì Paolo VI. Di doppia valenza.
Si, perché nelle nuove frontiere antropologiche, dove il misticismo inevitabile dell’ ”animum” umano aveva bisogno di uscire dal ricatto razionalista del pensiero positivo, di derivazione francese, e il conseguente “realismo” di mente e di stile si avviava ad un morboso “inabissamento” della carne, fino a farsi, nel tempo, pauperismo senza speranze (come in tutte le stagioni del “nihilismo”), l’arte e il sacro – nati insieme – si fuggivano e si attraevano inevitabilmente.
Quando prevaleva la rivalsa “anti-modernista” della Chiesa, il pregiudizio negativo verso l’arte moderna scendeva a furori distruttivi, come successe con il pressante invito delle alte autorità ecclesiastiche di rimuovere gli affreschi di Severini nella chiesa di Semsales, nella Svizzera romanda (per fortuna si riuscì ad evitarlo). L’idea era che gli spazi sacri fossero un “limbo” pacificato e intranseunte e, con l’arte, una proiezione figurata di catechesi, ortodossa e astratta.
Quando invece si lasciavano spiragli, per intelligenza o sensibilità, la “scossa” dell’arte moderna rianimava con lo “splendor veri” (antica formula scolastica dell’arte sacra attribuita ad Alberto Magno) le prevedibili e statiche figure del “simbolismo” ecclesiastico. Scossa davvero, se si pensa ai sensibili riverberi dell’Espressionismo, di cui il nome più famoso e accreditato è Georges Rouault. Ma lui ricordava, anche, le storiche accensioni delle vetrate.
Oggi, siamo in grado di valutare più serenamente quanto del timore d’allora poteva essere giustificato, ora che dobbiamo fare i conti con pericolose derive “relativiste”, da non confondere, certo, e non datare con la grande scoperta della “relatività” e quella di una logica non euclidea e, soprattutto, con il pensiero “fenomenologico”, che non è affatto una riedizione dell’immanenza, ma la coscienza dell’ Assoluto, subito, qui.
E siamo in grado, anche, di ri-ascoltare (speriamo “ricevendo”) quelle acute sollecitazioni allo spirituale, all’oltre e, detto in modo più o meno esplicito, al “sacro”, che tutte le espressioni d’arte, tutte, pur trovandosi ormai fuori i “confini”, hanno formulato con i più “bizzarri” linguaggi.
Prendiamo, per esempio, il fenomeno “Dada”, dominante, si può dire, l’intero panorama dell’epoca contemporanea(tutt’oggi). Fondativo (e salvifico) il suo concetto della libertà soggettiva dell’artista, è, forse, più importante delle pur originalissime opere prodotte che, spesso, sono state semplici (ma moralmente strategici) “recuperi” dalle enormi discariche del voracismo tecnologico dei tempi moderni.
Il “Dada” ha un sostanziale merito “trascendentale”: nella montante ideologia dei “regimi”, tendeva a decongestionare, sia moralmente che esteticamente, quelle inclinazioni del pensiero e dell’arte verso “fatali” pretese superomistiche.
Il “Dada” si potrebbe, addirittura, definire la “preghiera” dell’anti-preghiera, un’ invocazione “suprema” per frenare il disumano prepotere politico.
Non è un caso che, insieme all’ “empio” Tristan Tzara, troviamo, al momento fondativo, un religiosissimo Hugo Ball, predicatore di Dio.
Insistendo, poi, sui registri di un simbolismo sincronico e diacronico, com’ é quando si allarga l’orizzonte a significative stratificazioni del sacro, non si può non leggere Duchamp (dall’orinatoio “Fontana” con la firma “Mutt”, al “Grande vetro”) con cifre di rimandi sacri: sia quelli ancestrali che gli attualissimi, d’ ora.
Di più, nel profondo, sono necessarie anche “esegesi” bibliche (come ha fatto Calvesi per il “Grande vetro”).
Allora, ci sarebbe da fare una completa e complessa rivisitazione dell’arte contemporanea nei suoi rapporti col “sacro”. Qui non si tratta di sentimento ma di autentica “spiritualità”. Soprattutto nelle scelte più estreme e formali: sia per la figurazione, che per la materia, che per la più sorprendente “gestualità”.
Prendiamo per tutti – e siamo nella notorietà più evidente – i lavori dello stesso Duchamp, di un Magritte, di un Max Ernst, di un Dalì e, risalendo verso di noi, di un Pollock, di un Barnett Newman, di un Y. Klein, di un Burri, di un Fontana. Tutti artisti che, per diverse vie e diversissime intese e accoglienze, erano sicuramente “insufflati” di sacro, “innominabile” spesso, ma reale, fisicamente “sibilante”.
E ora siamo a Renato Meneghetti che, appunto, si può guardare nei suoi “abissi” e, specificatamente per le sue invenzioni – le “radiografie” – come un’artista che, perdendosi nell’uomo, rivendica la “pietas” divina.
Certo, nelle asettiche visioni, comunque compassionevoli, del “credo” artistico tradizionale, non sarebbero scampate a un perentorio rigetto.
Oggi, Renato Meneghetti è a Roma, con una mostra in quattro sedi tra le quali “Sala 1”, nel territorio – il Laterano – delle prime edificazioni cristiane, e quindi dei primi segni “permessi” con l’ascesa di Costantino e le sue donazioni alla Chiesa.
I primi segni cristiani danno paternità a tutti e, nel particolare e originale stile di Meneghetti, esprimono la forte capacità “redentiva” dell’ arte sacra cristiana che potrebbe non avere un “titolo” esplicito, ma, lavorando sulla “carne”, entra, vitalmente, nell’ economia sacramentale di Cristo e della Chiesa. “Caro salutis cardo”, diceva un apologeta dei primi secoli cristiani, Tertulliano (“De Resurrectionis mortuorum, VIII, 6-7).
Diciamo anche, e subito, che il percorso di Meneghetti – proprio come artista della contemporaneità – non è leggibile con le vecchie categorie ermeneutiche di “bello, vero e buono”, della vecchia scolastica, rimasta nei manuali.
Il suo “abisso” nel male dell’uomo, la sua “scheletrica” verità (le radiografie), il suo “inquinamento” tra luce e tenebra, non si risolvono con le formule estetiche tradizionali. Prima di tutto per una “nuova”autonomia artistica, che appartiene alla fenomenologia dell’arte, non a quell’impalcatura fissista delle idee, da cui si deducevano modelli in stile “platoniano”.
E poi. Meneghetti, come si diceva, è entrato nell’arte con un proposito efficacemente redentivo, che salta i vecchi passaggi scolastici.
Questo stesso termine – “catarsi”, come “redenzione – può essere il “leit-motiv”, dopo l’evento cristiano, di tutta l’arte, anche di quella immediatamente fruibile per diletto estetico perché, in ogni caso, ci ridà l’anima, cioè ci “redime”, come ripete in tutti i suoi testi lo psicoterapeuta dell’arte James Hillman.
Rispetto, tuttavia, ad artisti che fanno, della “catarsi”, un’ “origo” causale o una prospettiva finale, Renato Meneghetti vi si butta direttamente, totalmente, con il suo linguaggio spoglio di retorica, ma tutto combusto nel “foco”della “passione. La totalità va al “plenum” con un linguaggio sinestetico, che coinvolge cioè l’interezza dell’ “esserci” dell’uomo. Tutto: corpo e anima, la natura e i sensi. La storia e le storie.
Seguiamo perciò il “ductus” terribile e esaltante di Renato Meneghetti a “Sala 1” di Roma.
Il percorso comincia con un tunnel tagliato da lame specchianti il colore nero di una “cava” implosa nel buio. Eppure … eppure occhieggia, a tratti, il germe residuo o rinato della vita. Il “seme” non muore, il seme che e’ nel polline appena percepibile di “voglie” di luce, che si compongono in sommesse e soffuse coralità gregoriane.
E’ dal fondo di una storia sacra-non sacra che si riparte. Dice il Signore nella Bibbia “… o mio popolo … non popolo mio …”. Ma si ritenta. Si riparte.
Ora, il “mestiere” dei profeti e degli artisti è proprio quello di “fiutare” refoli di resurrezione quando sembra imperare il pesto destino della morte.
Con questa fibrillante esperienza si attraversa la lunga “cavea” oscura che sintetizza il dramma della vita; non solo, ma l’arco o l’antro stesso di una storia dove le stelle si sono spente. Tutte. Tutte … eccetto quelle che “restano” nella “memoria” di Chi le trascende.
Qui è d’ obbligo nominare il “sacro”, perché è su questo altro termine – dopo la “catarsi” – cioè su la “memoria” che l’arte riesce a compiere il salto supremo dal ricordo (umano e che si spegne) alla memoria (divina e che, sempre, si ri-accende).
Il dato, a questo punto più direttamente biblico e autorevole, è abbondante quanto salvifico quando niente c’è più nella mente dell’uomo, tutto resta o si forma nel pensiero “creativo” e risorgente di Dio. “Nelle tue mani, rimetto il mio spirito” (Lc.23,46) .
Fondamentale, però, precisare bene i termini: parole, significati, simboli ed esegesi.
Perché l’arte, pur aperta al mistero dell’ “ineffabile”, nel senso che ha sempre la virtù di essere qui e oltre, in un tempo e in uno spazio dove si attraversano naturalmente i confini, è la via aurea verso la “verità”; è essa stessa una verità, non più-col “verbo” cristiano - una metafora; e neppure un’ “illu –sione (come faceva credere il “pensiero debole” prima maniera, vedi in G. Vattimo: “Filosofia al presente”).
Precisando, appunto, il buio, l’antro della morte in cui si precipita con il “pneuma" nero di Meneghetti, è un’altra cosa rispetto alle “ombre”, cui potrebbe far riferimento e di cui si ha, nella letteratura e nei testi di arte figurativa, un’amplissima e variegata esposizione.
Per intenderci, l’ ”ombra”, spesso creata e evocata dagli artisti, è “l’altra faccia della luce” come si deduce già seguendo il vocabolario biblico e, poi, nell’attrazione della mistica, sia ebraica (la “kabbalà”) che cristiana (i santi poeti e contemplativi, tra tutti, il più alto, Giovanni della Croce) e dal simbolismo letterario, che è nei secoli ininterrotto, fino a Proust, Rilke e L.Borges (vedi, di lui la straordinaria opera “Elogio dell’ombra”).
Precisazioni, queste, necessarie per caratterizzare più semplicemente l “animus” artistico, catartico-redentivo di Meneghetti. Buio, non “ombra”.
Un’ “animus”di sostanziale tenuta storica, che lo lega, addirittura, alla specifica e intima “catechesi” iconografica della tradizione classica cristiana, nei due versanti: quello occidentale e quello orientale.
Quello occidentale, si sa, è datato con la scelta “incarnazionista” francescana e giottesca, cioè nell’ “incarnatato” del Cristo amore-piaga, del chiaroscuro e della prospettiva. Da quel momento (anche col precedente cimabuesco), l’arte sacra occidentale è stata un crescendo nella spericolata tensione del dramma umano, che provoca e invoca il divino, fino ai vertici “abissali” del Rinascimento nordico, con Grünewald, Holbein il Giovane e, nel mondo latino, con El Greco e, facendo ora secolari salti generazionali, nel ‘900, con l’espressionismo (terribile e passionale) e, più vicino, con Picasso (la sua “Crocifissione” del ’30.), con Munch, con Bacon, con Sutherland (la sua “Crocifissione” del ’47, che è uno scompiglio di segni, (si trova nella Collezione d’arte moderna del Vaticano), con il convertito e cristianissimo W.Congdon e, nella “crudità” senza limiti (ma tutta “materia” di Dio che muore), Herman Nitsch.
Qui si entra nell’evento fisicamente “carnale” della redenzione che – si può sostenere – risente dell’ economia “sacramentale” della ritualità cristiana.
Perentoriamente: o è così o il sacro si scioglie in “vapori” spirituali. Si perde: carne e verità.
E’, ora, la tradizione orientale. E’ una tradizione orientata alla scelta “escatologista” delle icone. Ma, anche in questa sublimata visione, si resta fedeli all’incontro decisivo di Cristo con gli abissi: del male, del peccato e, quindi, dello stesso destino dell’uomo. Per la redenzione.
Ed è un tema iconograficamente fisso nei secoli. Dalla Natività, dove il bambino Gesù è deposto in una culla fatta a sepolcro ed è in bilico sull’antro buio della morte e degli Inferi, alla Risurrezione, dove il primo intervento del Risorto è la discesa, proprio agli Inferi, raffigurati, ancora, in “mandorle” di nero e prende per mano, per la risalita, Adamo ed Eva.
L’ installazione di Renato Meneghetti, ideata con il suo ritmo rituale, ricorda visivamente e simbolicamente, la notte del Sabato Santo nelle chiese, che è chiamata “la notte delle notti”.
E’ la “veglia santa”, che inizia dal buio (si spengono tutte le luci della chiesa).
Buio che non è solo buio, ma tutto il grembo della storia, svuotato dalla vita con il peccato, dove l’uomo è espropiato, denudato, e si rivede “schematizzato” (distrutto) come in una “radiografia” – con un occhio, in parallelo alle forme di Meneghetti – dove la figura è solo l’impronta di una distruzione totale. Vengono in mente per uno struggente richiamo, le impronte umane sui muri di Hiroshima dopo la bomba atomica . Non resta altro. Un segno, qui, più angosciante del nulla.
Ma ecco che la notte è squarciata dalla luce del Cero Pasquale. Nella liturgia il Cero Pasquale, che rappresenta il Cristo Risorto, è una presenza viva, ma “discreta”, sensibilmente percepita, ma non invasiva o clamorosa.
Invece, nell’evento artistico-salvifico di Meneghetti, la luce deflagra al termine di questo oscuro cammino.
E’ un lembo, assolutamente plenario (“il plenum” che si diceva) dello splendore di Dio. E’ uno “scoppio” di luce.
Ma importante è che questo “urlo” di luce , dopo l’urlo paradossalmente lacerante e insieme “muto” dell’uomo, poi, trovi una sede, un luogo permanentemente abitabile. Come un “pozzo” , e qui l’ accostamento è col pozzo centrale dell’”hortus conclusus” dei chiostri monasteriali e conventuali. O un Abside concepita come “statio” liturgica della luce. O come una cappella o una Cripta, incendiate più da una visione spirituale che da un rogo atmosferico.
Comunque, è la fine. O meglio è l’approdo di tutti i gemiti e di tutte le speranze, consumate lungo il percorso della vita. Questo, da Meneghetti, è’ simboleggiato nell’assorbenza delle pareti bianche, bianche come i “sudari” e i panneggi degli artisti del 400, tra cui, assolutamente strepitoso e unico, il panno bianco del “Cristo morto” di Mantenga a Brera.
Dall’urlo natale della “natura scura” inscritto nella carne e nelle infinite mappature del corpo, al “risus paschalis”, cioè l’Alleluia della Luce, il nuovo “big-bang” creaturale di Cristo, che sale e dilaga in modo incontenibile.
La redenzione non può e non vuole altra “trasfigurazione” nei segni, nelle forme, nella materia che in questa immensa “cava “ di luce.
Ma non si dà completa redenzione se non coinvolge l’intera capacità sensoriale dell’uomo.
Ecco, perciò, dopo la vista e l’ udito (i suoni che graduano la morte e la rinascita), l’ odorato. I fiori, il profumo.
La redenzione è, veramente, un avvenimento cosmico,”panico”. Il “panismo” che è, tra l’altro, il “sogno” dell’arte, da sempre. E’ in questa direzione che voleva spingere l’invenzione critica del termine “tattile” di Berenson, riferendosi ad una comprensione che affonda nell’arte, oltre che con il pensiero, con tutta l’attenzione prensile della persona.
La vista, per una più completa definizione estetica, deve essere confortata e collegata a tutti i “canali” dei sensi, fonti della vita perché, anche, “finestre” sull’Assoluto.
Meneghetti introduce, così, il profumo dei fiori, dopo la desolante visione della loro caduta nella morte – i fiori appassiti, i petali estinti lungo il percorso – ed è parte integrante della Risurrezione. L’Alleluia che profuma. Il profumo del “risus paschalis”.
Renato Meneghetti – in conclusione – forse scuote e aggredisce di più con la desolazione.
Ma si deve avere il coraggio, di più, si deve scommettere nell’abbraccio finale con il fulgore della luce, il più credibile pre-sentimento dell’Eterno.
Dal nulla (“ex nihilo”) al tutto, dal buio alla luce, dalla morte alla vita, dal silenzio all’essere.
“Eghènetai”!
Nel prologo del Vangelo di Giovanni, è questa la parola che deflagra per la salvezza.
Come nell’ ”incipit” della Bibbia, nel libro della Genesi c’è l’espressione chiave della creazione: “fiat lux!”, ora, l’ espressione chiave della redenzione: “eghènetai”: “ il Verbo - si fece – carne”.
E la carne – buia, ferita, spenta – la carne scoppiò nella Luce.
Don Giuseppe Billi
2006