Se non avessimo gioito per le arti ed inventato questa sorta di culto del non vero, allora la presa di coscienza della generale non verità e della mendacia che viene a noi dalla scienza – la realizzazione che il delirio e l’errore siano malesseri di umana conoscenza e sentire – sarebbe assolutamente insopportabile. L’onestà condurrebbe alla nausea e al suicidio. E tuttavia esiste ora una forza centrifuga alla nostra onestà che ci aiuta ad ovviare a tali conseguenze: l’arte come buona volontà rispetto all’apparenza.
Friedrich Nietzsche, La Gaia Scienza*
Nel film dell’orrore The Addiction, girato nel 1995, la studentessa di un dottorato in filosofia, una volta superato il blocco dello scrivere (avvallato o avviluppato nella crisi etica che i suoi studi universitari cercavano di contenere), diviene in prima battutta una vampira e se la cava bene anche nell’affondarci i denti, e discute la sua tesi di laurea di fronte alla commissione. La cinepresa, e noi con lei, compie una panoramica della sala in cui si trova la studentessa e noi riusciamo solo a percepire, poichè una parola su tre va a perdersi nel balbettante passaggio della nostra percezione sensoriale, le sue parole di saggezza. Si tratta dell’approssimazione del sogno di una dissertazione massimamente intelligente o specialistica: nel sogno si suonano tutte le note più alte, proprio come la nostra studentessa, e si straccia la prova orale. Tuttavia, dovessimo ricordare e trascrivere le nostre parole a beneficio dei saggi, non riusciremmo a ricatturarle, né sapremmo trovarne il senso o il trionfo che hanno rappresentato, e tutto ciò, poichè ora è già sfuggito, lo si trova perduto. Dopo, la neo-dottoressa, invita la commissione ad un piccolo rifresco per festeggiare. Ecco che la statica si libera. E’ tempo di mettere alla prova – o ricusare nell’immobilità – la sua eredità. Le sue parole di benvenuto sono proprio come uno se le aspetta. Ma, poi, offre ai propri ospiti e mentori una nuova serie di scoperte ed un nuovo paio di incisivi. Il ricevimento si trasforma in un bagno di sangue vampiro-sadico.
Nel prosieguo del transfert in un ambiente istituzionale, la scena dell’esame sull’intelligenza discorsiva della candidata (insieme alla sua interpretazione, quasi in uno stato di risveglio, attraverso il vampirismo), trovo la visione interna della convinzione critica che ha fatto maturare le opere di Renato Meneghetti o, altrimenti detto, quella del rapporto proprio dell’artista con l’istituzionalizzazione. Ciò che si è perso, reso sintomatico e registrato lungo tutta la linea ricettiva è che Meneghetti è in primo luogo, un luogo di sovrapposizione fra arte e tecnologia (e scienza), uno sperimentatore o un collaudatore che tuttavia mette sempre anche alla prova sè stesso. Nella sua istituzione stessa, Meneghetti ha molto da dire. Ecco il signicato più ristretto della prova sulla e nell’accumulo della sua opera.
Proprio come in The Addiction, in cui il sogno dell’esame facilmente superato per l’ingresso nell’istituzionalizzazione entra possente e chiaro solo in una condizione di transfert e si rende disponibile ad un’ interpretazione solo in forma di alle-goria vampiristica, l’”ars esaminandi” di Meneghetti trova e fonda un’istituzione fuori dalle istituzioni, ma con un punto di vista interno che si apre, in senso lato, alla vita istituzionale.
E’ possibile “risvegliare” o innalzare alla forza dell’interpretazione (oppure ripristinare come proiezione) la convinzione critica di Meneghetti? L’identificazione che Duccio Trombadori ha enunciato di Meneghetti definendolo un “mutante” può essere considerata un caso esemplare da sottoporre ad esame.
1.
In “La Questione della Tecnica”, Heidegger contempla la situazione essenziale (in contrasto a quella tecnica) della tecnologia: il sostantivo Gestell raggruppa parecchi verbi tedeschi che stanno a significare elevazione, posizionamento e disposizione secondo un’ordine e che, secondo Heidegger, significa sia apparato che applicazione o strumento e anche scheletro. Heidegger ammette che, sia di primo che di secondo acchito, questa doppia ocupazione semantica di Gestell sia strana ed addirittura orribile. Tuttavia, straordinarie contraddizioni in seno ad un’unico sostantivo discendono su di noi da Platone e divengono “habitus” di pensiero. L’essenza scheletrica della tecnologia appartiene ad un subitaneo posizionamento che precede qualsivoglia esternalizzazione macchinistica. Ciò che viene quindi “messo in cornice” è la preparazione o la disponibilità a tutto ciò che la tecnologizzazione manifesterà e fornirà. La Gestell, ed io ora qui parafraso Heidegger assai da vicino, è il coacervo del sollevarsi o trovar posto che sfida l’uomo a scoprire o svelare la realtà in quanto riserva nella modalità dell’ordine. Gestell è la ripetizione teutone o la prova teatrale della greca techn? che costringe sia l’arte che la tecnologia (o la scienza) entro una “cornice”. Heidegger, da ultimo, elabora questa doppia traiettoria della techn? perchè l’arte divenga il regno nel cui ambito si contempli ed incontri nella sua essenza (invece che, ancora, nel suo mero aspetto tecnologico) la tecnologia.
Nel 1979 le prime radiografie a passare sotto lo sguardo preoccupato di Meneghetti furono quelle della di lui figlia il cui male doveva essere diagnosticato prima di essere guarito. A seguito del risultato positivo della terapia, Meneghetti iniziò il suo caratteristicamente specificante lavoro sulle immagini ai raggi X. Scelse proprio le immagini dell’interno dell’organismo di sua figlia e le trasformò in dipinti. Nel far ciò, lasciò un segno che citava o faceva anticipatamente appello ad un nuovo genere di immagine nelle arti ed altrettanto nei mass media. Le sue opere fagocitatrici precedenti erano già incentrate sul corpo visto tecnologicamente, sia al suo interno che all’esterno, sospeso fra pericolo e salvataggio. I fagociti forniscono una prima linea di difesa dell’organismo contro tutto ciò che potrebbe minacciarne la sopravvivenza: ingoiano e sciacquano via i corpi estranei, spesso materia inutilizzata. Se Meneghetti, ad un certo punto, si scelse il nome di fagocitato, lo fece allora per rafforzare la sua identificazione con la vita al cui servizio vedeva se stesso come colui che ha la licenza di uccidere: arrestare il movimento di ciò che già è privo di movimento. Ciò che un nome rappresenta e contiene lo si trova nel titolo del film d’azione X-men. Si estrapola che la “X” contrassegna il punto in cui si trovano i “mutanti” – il punto dell’ignoto – e definisce ulteriormente i “Men” come “finiti” o “ex” sulla scia di trasformazioni ed altre mutazioni di livello superiore era, in effetti, una designazione positiva attribuita dagli allievi a beneficio dei propri professori. Contrariamente ai mostri del nichilismo che incoraggiano la guerra contro il nemico totale , quegli uomini esagerati e ormai finiti che portano il nome cadeau-transfert di X-Men ubicano la questione della superumanità all’interno di una scuola, in una sede di letture ed interpretazione. E, comunque, da mutanti una volta e da futuri X-Men, devono trovare la loro scuola fuori dalla scuola. I mutanti che ricercano la situazione di tranfert sono schierati in battaglia, come i loro cugini nichilisti, nel recinto dell’istituzionalizzazione.
Gli studi condotti da Wilhelm Conrad Roentgen sui raggi invisibili lo riportano sui binari del transfert verso e attraverso l’istituzionalizzazione (quei binari attraverso i quali era stato castrato e sminuito al liceo). Prima di prendere il diploma di maturità, venne sorpreso con in mano una caricatura di un insegnante (che, per orgoglio, non smentì di aver disegnato, anche se, così almeno narra la storia, non ne fù lui l’autore).
2.
Roentgen scoprì e produsse la prima radiografia di uno scheletro umano vivo in un periodo in cui gli studi scientifici probanti erano per ogni dove confinati a servire da mezzo per liberarsi, ad uno ad uno, degli strati di invisibilità. La radiografia era comunque registrabile unicamente e immediatamente in forma fotografica. Le precedenti invenzioni della fotografia e del viaggio su rotaia – i due binari alternanti della tecnologizzazione che sia Freud che Kafka videro come fattore di riavvicinamento di quel che, sull’altro binario, era già stato concepito come fantasia assai lontana – in ultima analisi servirono da collante per le loro innovazioni, come fosse un nuova modalità di vedere il formato o l’industria cinematografica. Walter Benjamin (allegoricamente) personificò il nuovo rapporto intercorrente con il mondo visibile o visualizzabile che ci era stato portato dal cinema come chirurgia. Proprio come il chirurgo evita il rapporto interpersonale con il paziente per penetrare direttamente e profondamente dentro un corpo che è stato aperto, altrettanto il cameraman (con lo spettatore in coda) entra nel nuovo campo visivo di Zerstreuung – immdediatamente e parallelamente “distrazione” e “disseminazione” – come esaminatore o collaudatore senza o oltre la mediazione della differenza o della distanza interpersonale .
Lo scheletro è una vecchia figura allegorica della Morte. Precede il cadavere, l’indicazione ultima o il segno di alegorizzazione sul palcoscenico del dramma barocco. Secondo l’idea che Benjamin aveva di Baudelaire, ossia del moderno allegorista, il dicianovesimo secolo depone nudo (ancora) il cadavere interno. L’arte di Meneghetti occupa le diverse stazioni dell’incontro del corpo con ciò che lo svela. Consideriamo, ad esempio, i due autoritratti del 1989: intorno all’immagine radiografica ritroviamo la traccia dei tagli della ricerca anatomica autoptica. Proprio come negli odierni modelli in plastica o nei libri dalle pagine trasparenti, il De Humani Corporis Fabrica di Andreas Vesalius del 1543, il manuale anatomico primigenio a cui ancora fece ricorso Goethe, inizia con l’intero corpo nudo e continua esponendo gli strati di quel corpo fino a che il lettore arriva ad una sezione incrociata terminale: lo scheletro con i legamenti. Al tempo di Vesalius era proibito sezionare il corpo umano: più che di esecrazione si trattava di eresia. Le scoperte laiche di Vesalius erano foriere di forti dubbi su alcuni valori cristiani di redenzione nel loro punto allegorico di sovrapposizione con quanto sostenuto da pagani o occultisti sulla rianimazione fosse un osso incorruttibile nel corpo umano che servisse da nucleo per la resurrezione del corpo. Una volta aperto, il corpo avrebbe inevitabilmente, con il passar del tempo, rivelato che non esiste alcun ossso deputato alla resurrezione dentro di noi. Tuttavia, invece di sostituire l’eternità con la finitezza, è l’eternità stessa ad essere stata immersa nella finitezza. Il funzionale scivola quindi nell’allegorico. Vesalius ha rappresentato non solo il corpo scientificamente illuminato ma anche, senza alcun errore a lui imputabile, la creatura allegorica che non può nè vivere nè morire perchè (come il Cacciatore Gracco di Kafka) è l’anima immortale che è morta senza morire.
Secondo la rilettura che Benjamin fece dell’allegoria (in Origine del Dramma Barocco Tedesco), che riguarda tanto il teatro barocco quanto il dramma espressionista del primo dopoguerra, oppure, per quanto possa importare, riguarda tutte le parole ed i mondi fra e da quel periodo, la modalità allegorica ha un contesto proprio: sopravviene dopo il disastro. E’ la modalità che collega ancora la nostra sopravvivenza di dolenti e lettori a ciò che manca. Allegoria, secondo Benjamin, significa il non essere di ciò che allo stesso tempo essa rappresenta. Come per il cadavere, che Benjamin cita en passant come emblema allegorico primigenio pronto all’uso, l’allegoria si realizza all’interno della prospettiva del melanconico. L’oggeto diviene allegorico sotto lo sguardo melanconico, tutta la vita se n’è uscita, rimane come morto, ma eternamente conservato. Benjamin ha un analogo apertamente psicoanalitico per questa doppia lettura di cui egli fà uso non una, bensì due volte. Il sadismo attende all’allegoria, l’unico piacere, ma assai forte, che è permesso al melanconico di provare. “E’ infatti caratteristico del sadico l’umiliare il proprio oggetto e poi – o a partire da ciò – soddisfarlo.” Nello stesso modo l’allegorico si appropria di un oggetto malinconicamente defunto ma anche conservato e, quindi, “incondizionatamente in suo potere” (359). Nel suo lavoro più tardo sulla Parigi del diciannovesimo secolo, ad esempio, Benjamin segue il proprio sadismo nelle penetranti frontiere del tecno occhio (o Io). “La fantasia sadica tende a costruzioni macchinistiche. Quando affronta ‘elégance sans nom de l’humaine armature,’ Baudelaire forse riconosce nello scheletro una sorta di macchina.”
Lo “stallo” è stato affrontato nel 1933 da Hanns Sachs (nel suo saggio “Verspatung des Maschinenzeitalters”). Sachs derivò da casi di psicotici il condizionamento psichico a cui tutti noi siamo soggetti prima di poter inventare o affrontare la tecnologia nel mondo esterno. Altrimenti detto, gli aspetti machinistici esterni della tecnologia sono, come più tardi sostenuto da Heidegger, secondari rispetto ad un certo posizionamento psichico prestabilito che è alle origini della tecnologia. Nei casi estremi di formazione delirante psicotica, occorre sfuggire alle relazioni troppo ravvicinate ed in ultima analisi misteriose con il corpo (mancante) attraverso la concezione e produzione di trame paranoiche di controllo della meccanica e della mumificazione. Secondo Sachs, l’avvento delle tecnologie esterne serve a mantenere la necessaria e sicura rimozione alla quale deve essere conservato, attraverso la proiezione, il corpo (mancante).
Il ritardo teorizzato da Sachs si trova anche nell’era della macchina, ove funziona come il collegamento a strumenti strani sostenuto da Benjamin, mantenedo così lo spavento del “techno” ed il ritorno della mummia in un programma di azionamento controllato.
Sachs sosteneva che benchè il “saper fare” fosse stato posto a servizio delle tecnologie delle macchine già nell’Antichità, gli Antichi Greci e Romani avevano ristretto la loro inventiva alla produzione di oggetti divertenti. Sachs descrisse quindi questa Età dell’Oro come un periodo storico (o nella storia dello sviluppo) in cui il narcisismo primario potesse essere considerato la norma. Il narcisismo primario, o basato sul corpo, nell’Antica Roma e Grecia non era apparentemente soggetto a restrizioni quali l’osservanza della legge che ciascuna psiche ha dovuto seguire da quel periodo in poi: o avanzare verso il narcisismo secondario in cui le proporzioni corporee dell’amore di sè (o amore della madre) devono essere abbandonate e sostituite da rapporti di potere, oppure prepararsi alla rottura psicotica. Attraverso i rapporti intessuti fra ego ed il proprio controllo, viene nondimeno conservato un certo rapporto con il narcisismo primario nel “normale” sviluppo in linea e tensione perfetta con l’autocritica. Nel caso in cui non si riesca ad attuare il disinvestimento dallo stadio di narcisismo primario o basato sul corpo, la psiche viene a trovarsi afflitta da una crisi di mistero e stranezza: il corpo, vivo o morto, come misura di tutte le cose accende il filmato idiota di decomposizione senza fine e di non-vita. Ciò introduce l’ “intervallo” psicotico. Ma l’unica “pausa” che può avere lo psicotico è la proiezione d’emergenza all’esterno del proprio narcisismo corporeo di un nuovo mondo machinistico, la proiezione d’emergenza, in altre parole o mondi, del corpo in quanto macchina, tecnologia mediatica, in qualche maniera come forma di collegamento con (o scollegamento dalla) una lunga distanza. Senza la pausa-stazione della proiezione di un nuovo ordine tecno-delirante a sostituire quel mondo perso a causa della repressione, lo psicotico se ne va quietamente: dissolvenza, catatonia, cripta mortale.
Quindi, come già sottolineato da Freud nella sua lettura di Memorie di un Malato di Nervi di Daniel Paul Schreber del 1903, un doppio riferimento a cui Sachs si rifà a sostegno dell’intero suo saggio, la formazione di un sistema tecno-delirante deve essere interpretata – come l’ultimo levare del direttore d’orchestra su di un pentagramma – come l’avvento di una fase di “ripresa”. Sia l’autobiografia di Schreber che l’analisi che Freud compie di questo corpus accompagnarono la concezione di Benjamin dello stadio o gamma allegorica della commedia barocca del lutto.
Come, allora, comprendere la teoria di Benjamin della modalità allegorica della lettura post-catastrofica? Possiamo iniziare con una nostra ambientazione, il “Sensurround” massmediatico, che semplicemente ribalta, purtuttavia conservandolo, il collegamento melanconico, ma nella modalità di preparazione alla catastrofe, o ciò che Benjamin analizza e che prende il nome di “ammortizzatore”. La collezione delle “opere in-progress” di Renato Meneghetti può essere interpretata come la conservazione di codesta associazione fra il trattamento allegorico ed il suo opposto o “revival” massmediatico, con lo spostamento fra opere pittoriche che contengono un significato riconoscibilmente allegorico ed opere che impegnano le condizioni ed i contesti identificabili della nostra tecnologizzazione mediatica, e secondo ed alla base di presupposti che sembrano solo essere lungi dal dolente corteo allegorico. Inoltre, è possibile sostenere che tutte le opere di Meneghetti, una ad una, siano attraversate da entrambe queste rivalorizzazioni dell’allegoria.
3.
Nel Faust II di Goethe i “fantasmi di cartamoneta” presentano e guidano lo svolgersi dello scambio allegorico di voti in questo mondo in malattia ed in morte.
E’ al confine tra Cristianesimo ed allegoria (ed all’interno di entrambi) che si manifestano i vari interventi didattici di Meneghetti in quanto concetti limite nell’ambito dei quali la sua opera rischia la “sui-citazione” per affermare la sua recalcitranza allegorica.
“Optional,” che dal titolo prende spunto per un riferimento al linguaggio contrattuale, è costituito da un modello anatomico ingrandito a livello monumentale del cervello umano che si gonfia e sgonfia regolarmente. Il monumento al cervello reca didascalie di luoghi ove si sono verificati conflitti omicidi insieme al numero di cadaveri. E’ una commemorazione di queste perdite. Ma vengono altresì somministrate come “shock” o iniezioni inoculate contro il primo contatto diretto con una situazione traumatica. L’atto didattico reclama una certa distanza: preferiremmo non venire schiacciati dal cervello sgonfiatosi. Optional: o il culto della Messa/Massa dell’omicidio (Cristiana e/o Satanica), oppure imprimere sulle “masse” una misura di liberazione dell’ istruzione e del controllo.
Quest’ultimo, il moderno associazionismo dell’allegoria (secondo Benjamin), ricerca la tecno-mutazione di ciascun consumatore in esperto ed esaminatore.
In “Indifference”, alcune fragili teste umane sono sparse nel pavimento che ospita la mostra. I resti cermici sono riferibili al corpo umano (contati a testa) attraverso il regno dei giochi di bambola nel cui ambito la miniaturizzazione e la fragile simulazione della vita di tutti i giorni in assenza di segni vitali funzionali riprende da dove lasciò la linea di produzione preistorica di questi artifatti: più precisamente, nei luoghi mortuari che la cultura massmediatica reprime e rappresenta allo stesso tempo. Quindi, il contraltare di “indifferenza” è “commemorazione”.
Una volta entrati all’interno dello spazio della mostra, sia che si calpestino queste teste scientemente o incoscientemente, l’azione viene compiuta con indifferenza nei confronti di queste rappresentazioni dei corpi “persi/dispersi”. Il giorno seguente, ed ogni giorno a seguire, viene reso noto il conteggio dei corpi del giorno che precede. Quindi, la fase didattica della mostra palesa le difficoltà (tecniche) attuali di fronte alle quali ci si trova nell’immedesimarci nelle perdite ogni giorno riportate dai notiziari. I resti ceramici possono solo divenire oggetti nei e con i quali identificarci se divengono corpi e, quindi, essere fatti riposare in pace in quella od insieme a quella parte di noi che, attraverso l’identificazione, ha già attraversato il solco ed è entrata o si è spinta verso l’altro.
La mostra stessa continua come fosse un esperimento continuo in cui i visitatori vengono messi alla prova: non si può passare, ma si può solo attraversare.
In qualità di prova da sostenere, il suo risultato viene anche postoposto dal “flash back”, potendo scegliere la molteplicità solo dopo il fatto e, quindi, in un certo senso, iniziando di nuovo a sostenere una prova, assicurandosi il tempo necessario a che si possa passare dentro la prova.
Come gli interventi (allegorici) chirurgici e sadici di Benjamin, anche queste, quindi, fasi metaboliche del corpus di Meneghetti si situano in contrasto rispetto al “nichilismo medico” al quale possono altrimenti portare. Benjamin commenta questo nichilismo così come era stato sintomaticamente definito da Carl Jung, Gottfried Benn e Ferdinand Céline: “Questo nichilismo proviene dallo shock che l’interno del corpo provoca a coloro che ne hanno a che fare.”
L’opera di Renato Meneghetti è aperta alla tensione della prova che è insita in noi: la tensione del lasso d’attenzione che si raddoppia all’indietro e che riporta indietro, dell’essere colti di sorpresa nel bel mezzo dei nostri presupposti. Egli, quindi, lavora sullo shock e sul trauma. Il primo contatto con ciò che c’è di nuovo nel sensorium massmediatico, che può sempre essere rinnovato, raddoppiato e contenuto, ritorna improvvisamente (attacco a sorpresa), ma è sempre anche conseguente al fatto, è solo una prova. Quindi, attraverso il contatto con l’opera di Meneghetti, l’osservatore inizia a passare (dentro o attraverso) la prova oppure, se preferite, l’osservatore viene spinto ad uscire dalla consapevolezza che si vive in condizioni di perenne esame. Questa è la doppia impostazione che fornisce una pausa al pensiero e, al tempo stesso, richiede tempo, quel tempo necessario per ripristinare e deferire, sia come accade nel caso del ritardare la fine o la scadenza e come quel verificarsi dopo il fatto che momenti di riconoscimento possono continuare a far sopravvenire o impedire di riunire.
Un altro modo di passare consiste quindi non nell’affrontare la prova, ma nel sottoporvisi senza provare.
Sono indifferente di fronte all’altro. Questa passività radicale, a sua volta, soddisfa – senza esaminare – la condizione di essere sottoposto ad una prova che, in ultima analisi, permette all’altro di venire (o di andarsene).
“La Musa sofferente.” In Renato Meneghetti. Pittura e altre arti. 1954-1999. Milan: Skira, 1999: 51.
“Das Kunstwerk im Zeitalter seiner technischen Reproduzierbarkeit.” Gesammelte Schriften. Ed. Rolf Tiedemann and Hermann Schweppenhäuser. Volume I. Part 2. Frankfurt/M: Suhrkamp Verlag, 1980 [1936]: 495-96.
Ursprung des deutschen Trauerspiels. Gesammelte Schriften. Vol. I. Part 1. 1974 [1928]: 360. Subsequent page references to this work are given in the main text.
Das Passagen-Werk. Ed. Rolf Tiedemann. Vol. I. Frankfurt a/M: Suhrkamp, 1983 [1927-1940]: 447.
Das Passagen-Werk. Vol. I: 590.
N.d.T.: Tutti i titoli delle opere contenuti nel testo sono stati tradotti in italiano ove possibile con le traduzioni ufficiali estrapolate dalle bibliografie degli autori citati.
Laurence A.Rickels
2006