Non conosco la musica composta da Renato Meneghetti, ma provo ad immaginarla a partire dall’effetto silenzioso, altamente vibrante, che pure emana dalle immagini in sequenza delle sue opere. Un dinamismo interno alla visione ci coinvolge al cospetto di una serie di radiografie dipinte, di tele emulsionate e pigmentate, di carte trattate ad alcool, di plastiche termoformate, e di altre materie sottoposte a una manipolazione premeditata e aggressiva. È a questo punto che l’evento sonoro può coincidere con il più prezioso effetto dell’arte visiva, la sensazione di uno stacco dalla temporalità, per quella atonia che in se stessa è musica, ma ancora tutta compresa in una potenzialità legata alla immagine, aldilà del ritmo, del movimento, del suono. In un simile diorama effervescente dove il sentimento della irritazione è perfino accentuato da una versatile manualità estetizzante, si ritrova guardando a fondo il carattere di una intima, dissolvente, e forse disperata dolcezza giovanile. Meneghetti è dominato da un impulso sentimentale robusto che si impone perfino al cavilloso ordito di un progettare sperimentale, tutto affidato alla diversità delle tecniche visive. In questo sovraeccitato modellare del grido umano non sembra tuttavia che la disperazione abbia avuto la meglio, come accade quando il soggetto perde il filo della coscienza e si disintegra nel pulviscolo della sensazione.
Figlia della poetica narcotizzante della modernità decadente e accablée, la mimica espressiva di Meneghetti non si riduce all’orgoglioso elemento estetico puro, ma ne presume il riscatto avanzando con il ritmo espositivo di una teratologia densa di significati morali. Nello scompiglio dei generi d’espressione, nella ricerca quasi ossessiva di una identità tra sensazione e rappresentazione, Meneghetti sembra rispondere alle antiche esigenze della danza macabra, alle procedure iniziatiche di quei Trionfi della Morte medioevali, o protorinascimentali, dove la mortificazione della carne celebrava la sua gloria nell’attimo di maggiore incanto dovuto all’inganno della sensualità: e cioè in mezzo ad orti conclusi e fioriti, tra dame ingioiellate e cavalieri in amore, paradisi della vanità pronti a subire il destino di una corruzione tanto necessaria quanto imprevedibile. Aldilà del simbolo e della allegoria, però, Renato Meneghetti ha incontrato prima di tutto se stesso, e ha preferito procedere a una indagine sulla scarna dimensione esistenziale dell’uomo postumo, del tipo umano degenerato nelle moderne civiltà industriali, già anticipato poeticamente nella sua implorante miseria dal cuore messo a nudo di Baudelaire e dalle infernali illuminazioni di Rimbaud. Anche per questo, più che la forma, Meneghetti suggerisce ed evoca con l’opera ciò che ad essa è destinato a sfuggire per essenza, e cioè la ‘vita’, il suo flusso misterioso e sanguigno, la sua ancestrale irriducibilità a una cauta e ragionevole misura umana. Il tratto mistico di una simile posizione combacia con la esigenza energetica di tutta una produzione di immagini non paga di soluzioni statiche, e tantomeno rivolta a condensare nell’oggetto ogni significato dell’operare estetico. E si rispecchia nelle ansie di una intera generazione (Meneghetti ha cinquantadue anni) i cui riti, i cui miti ebbero il comune denominatore di una vocazione iconoclasta nel senso proprio della ‘contestazione’ di valori, convenzioni, abitudini sociali.
Ne è risultato un vocabolario complesso che non si limita a predicare l’azzeramento dei significati o la riduzione dei codici espressivi. Al contrario, una facilità manipolativa, una gestualità plasticatrice, una aderenza quasi tattile all’istante sensibile, ha condotto Meneghetti sulla via di una sperimentazione che difficilmente avrebbe potuto contenere tutti i dati di una vitalità liberata.
Egli è stato un disegnatore pubblicitario, produttore di oggetti per l’industria dell’arredo, elabora progetti d’architettura, dipinge, fotografa, realizza filmati in 16 millimetri, compone musica, fa teatro, scultura, realizza situazioni espressive con il proprio corpo fissandole sul video, e le Radiografietrattate dal pulviscolo cromatico ci dicono che la sua estenuante caccia all’opera d’arte ‘totale’ non è ancora conclusa. Infatti, seguendo l’itinerario aperto dalle immagini di Meneghetti, noi facilmente possiamo individuare il segno più intimo di una biografia, la segnaletica di una vita offesa e il tipico comportamento dell’uomo europeo in questa fine secolo, dove l’essenza del nichilismo sembra avere scelto la comoda lettiera di una ‘leggerezza’ dissolvente ogni relazione tra parole e cose. Così si può spiegare la consueta adozione della maschera in luogo del volto, il gusto del parlare in codice per insopprimibile esigenza esistenziale, la perdita di una identità riconoscibile, quasi per tutelare il potere di averne un giorno una, per non disperdere una virtù ancora tutta da mettere in gioco e alla prova.
Gottfried Benn ha scritto pagine indimenticabili sulla ‘doppia vita’ del fenotipo moderno occidentale, in analogia con i pensieri di Junger sul ‘passaggio al bosco’ come regola di sopravvivenza. Non è un caso che l’idea della ‘clandestinità’ susciti tanta suggestione presso i moderni, nella condizione della massima ‘trasparenza’ informativa, comunicativa nelle relazioni tra i corpi, gli individui, i sistemi sociali. La tragedia moderna della apparenza pone domande-limite all’arte visiva mettendone in discussione lo statuto e la finalità. Meneghetti sconta il peso di questa condizione adottando la strategia della metamorfosi e dell’autocompiacimento ottenendo una iridescente e quasi epiteliale descrizione della situazione umana. Il volto è identico a se stesso, così come il corpo si presenta nelle mascherature e nelle percezioni di sé in quanto oggetto della sistemazione clinica, o risultato della scomposizione fisiologica che, nel caso delle Radiografie, suggerisce l’anonimato esistenziale del genere, precipitato della morte fin dentro la vita. Dalle Radiografie, recente passaggio dell’energia immaginante di Meneghetti, una disperata vitalità visiva si proietta con decisione sul problema umano della ansietà consapevole del famoso “essere per la morte” di cui ci parla Heidegger. Ai raggi X vedi passare ginocchi, spalle, fronte, cavità orbitali, pube, mento, mandibole, crani e colonne cervicali, variamente sollecitati da passaggi di colore a volte stridente a volte ripiegato su toni più suadenti e allusivi (il giallo, o il violetto, o l’amaranto).
E si afferma con prepotenza la dimensione della trasparenza luminosa che è al tempo stesso un dato naturalistico e una allusione all’elemento trascendente o travolgente, furia dileguante della esistenza ‘finita’. La tecnica è una dote troppo umana per non finire limitata dalla razionalità chiarificatrice dell’istante. Ma nell’istante vi è una componente difficilmente apprensibile, e l’impresa dell’artista consiste proprio nel “tentativo del finito cosciente di pervenire all’infinito”. Cogliere “l’orizzonte del silenzio” dentro “i simulacri della apparenza” è la più ambiziosa delle ambizioni.
Meneghetti ne è consapevole da tempo, e la sua opera non ha altro scopo che questo. Collocando se stesso come possibilità di libertà tra la tecnica (comunicativa ed espressiva) e la dimensione del tempo, egli sconta l’immancabile scacco dell’uomo e della esperienza estetica nel tentativo di mimare la creazione pura. Lo stato di permanente disagio e di apparente furore esistenziale che trasuda dalle immagini non corrisponde e non si limita al bisogno di rappresentare il malessere sociale, o alla esigenza di visualizzare la crisi vistosa dei modelli culturali occidentali.
Vi è un livello presociale, starei per dire biologico, se non primario o primordiale, che polarizza l’attenzione e la tensione espressiva dell’artista. Qui la sensazione dialoga con alcune avvertenze istintive, e il tentativo di superare la coscienza con una surdeterminazione della pura percettività appare con evidenza mentre l’autore si considera oggetto di osservazione: egli è mutante, mutevole e grottescamente ammiccante come si conviene a una maschera triste, Pierrot Lunaire di una deiezione infinita, povera nella sua presunzione, prigioniera delle sue stesse difese razionali e intuitive. Nel dramma autobiografico-monografico che l’opera di Meneghetti espone, non si tratta tuttavia di mettere in gioco un dramma individuale: qui il destino del singolo diventa una avventura che riguarda il genere, e la parabola del nulla salus, messaggio né meno tanto cifrato emergente dalle immagini, affiora come inevitabile verità interna di una posizione artistica. Lo sguardo che Meneghetti attiva sul corpo umano ha la superba distanza filosofica dell’occhio di Foucault mentre prendeva nota, “nel vuoto dell’uomo scomparso”, dei sistemi discorsivi, delle relazioni di potere, della separazione irrimediabile di coscienza e verità della vita. La espressività filosofica dell’opera di Meneghetti dice della illustre gara contro il tempo che l’arte è destinata consapevolmente a perdere, in una sorta di permanente mimesi di quella dinamica vita-morte implicita in ogni tipo di linguaggio poetico.
C’è una continuità coinvolgente in tutto il percorso fino ad oggi seguito dall’artista che soltanto in superficie può essere ridotto alla stregua di un esteta della sperimentazione.
La pratica del linguaggio, le tecniche di comunicazione sono travestimenti di un solo pensiero dominante, in Meneghetti, che si afferma in crescendo quale filo conduttore di una genealogia morale figurata e plasticata per via di un eccessivo fervore vitale.
Uno dei suoi estimatori ha segnalato giustamente il suo bisogno di “intervenire sulla vita prima che questa diventi morte”: e se noi osserviamo la pluralità dei suoi interventi, dai Monotipi di fine anni Sessanta, alle figure ‘fagocitatrici’, alla serie di interventi stranianti e comunicativi (dal teatro ai video) fino alle ultime Radiografie, ci rendiamo conto che l’artista risponde a un unico e profondo stimolo poetico. Nel perenne corpo a corpo tra la vita che fugge e i nessi fisico-psichici del suo passaggio, si depositano tracce indelebili che è d’obbligo documentare e riprodurre con la cura della osservazione. In questa spietata autoanalisi, si raffina il messaggio espressivo di Meneghetti, dove il ‘mutante’ afferma la sua sincerità di fondo nella scelta di esibire la propria identità di ‘maschera’.
La tremenda e perversa tendenza a travestire la propria condizione, ad indugiare col linguaggio sulle peripezie della dialettica vivente, non è un gesto fatto in pubblico per puro compiacimento, ma segnala il bisogno di dire comunque la ‘verità’ affidandosi ai fragili strumenti umani. Nella coerenza variopinta con cui ha rispettato questo bisogno d’espressione, c’è tutto il contenuto morale di un’opera che, in quanto tale, assume una fisionomia non assimilabile alle ‘leggerezze’ del gusto prevalente tra gli epigoni del modernismo. Non a caso Meneghetti vive a ridosso del mondo dell’arte e del suo ‘sistema’ dosando puntualmente con discrezione le forme e i tempi della sua presenza pubblica. Questo modo di sottrarsi e di essere presente riassume il senso poetico di chi ama guardare ben oltre il basso profilo della attuale decadenza, con una posizione tutt’altro che cinica, perché ricca di vita e di speranza fin dentro la linea della ‘non speranza’. Ed è la originalità di un simile sguardo, così isolato e così comunicante, a indicarci la presenza rara e preziosa di un autentico stile.
Duccio Trombadori
1999