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C’è un romanzo che mi è così intimo che vorrei averlo scritto io, o che vorrei riscrivere, che prima o poi copierò di sana pianta dicendo che è mio (tanto, in quest’era di estinzione della memoria, di quasi messa al bando della letteratura e dell’arte, a chi vuoi che importi? Le fragili teste di Indifference, opera di Renato Meneghetti, insegnano).
Si intitola L’occhio del purgatorio (1945), ne è autore il francese Jacques Spitz, geniale scrittore, ingegnere di formazione, ignorato dalla critica. E’ la storia di un pittore deluso (il cliché è d’obbligo) contagiato per un cinico esperimento da un malizioso scienziato scopritore di un bacillo che modifica la percezione visiva, facendo vedere le cose in un tempo “anticipato” rispetto al loro accadere. Il pittore vedrà quindi la realtà sempre più in là nel futuro, in un’accelerazione progressiva; vedrà carne e verdura marcite nel piatto, vedrà morire la fidanzata ventenne, ma ai suoi occhi decrepita, durante un amplesso; vedrà morti e scheletri per le strade, amici compresi, fino alla dissoluzione della realtà e della materia, fino alla polvere dell’universo...
Cito a caso dalla mia edizione Urania (sic!), nella traduzione di Bianca Russo:
“Il numero degli scheletri aumenta. Li cerco con curiosità. Ormai li vedo anche nei quartieri alti. Ieri, in rue Royale, non potei fare a meno di ridere: c’era uno scheletro con sulle spalle una magnifica cappa di zibellino! Evidentementeil pelo della bestia dura più della carne della bella, comunque il contrasto era irresistibile. Avevo davanti a me una bella signora elegante! Nello stato in cui adesso vedo le persone, sarà bene che impari a distinguere le donne dagli uomini. Ho visto anche alcuni scheletri di cane, ancora coperti di pelo, il che conferma che il pelo resiste più della carne. (...)
“Sulla via del ritorno ne incontrai altri due: uno stava pescando alla lenza nel canale Saint-Martin, l’altro rincorreva l’autobus. Ormai non mi stupivano più. In fondo, basta farci l’abitudine. Gli scheletri hanno l’aria più semplice, più da brava gente degli altri. Portano il proprio destino con una umile dignità di cui non avrei mai creduto che gli uomini fossero capaci. Mi riconciliano un po’ con la specie umana.
“Stasera, mente riflettevo su queste cose, mi sono detto: quando non avrò più soldi, potrei sempre trovarmi un posto come radiologo!”.
L’humour sublime del narratore (che en passant sembra citare la Dama con l’ermellino di Leonardo), non a caso contemporaneo dei Surrealisti, sintetizza alcune questioni epocali della storia dell’arte e della scienza del Novecento. Ovvero la simultaneità (parola già gravida di sensi e conseguenze, cfr. Jung e il fisico Pauli) della scoperta e diffusione popolare dei raggi X inventati dal dottor Roentgen alla fine del 1895, e dell’arte primitiva di importazione coloniale. Due nuove esperienze, una scientifico-tecnologica, l’altra estetico-etnologica, che concorrevano a mettere in crisi le modalità e il concetto di rappresentazione. Con l’epopea dei Curie diveniva popolare la “fotografia dell’invisibile”, di cui si trovano le prime tracce letterarie nelle poesie di Apollinaire e di Gozzano, e ne La montagna magica di Thomas Mann; mentre l’aura magica e rituale degli affreschi preistorici rupestri influenzava l’arte del Novecento a partire dal celebre transfert di Picasso nelle Demoiselles d’Avignon e oltre.
Se arte e radiografia si sono a lungo ignorate, il loro intreccio è avvenuto con numerose modalità negli ultimi decenni. Dopo Renato Meneghetti, artista che usa le radiografie dal 1979, penso, per citare solo alcuni nomi in attività, a Wim Delvoje, Benedetta Bonichi, François Rouan, Monica Mansur e tanti altri. Fecero uso di radiografie anche Francis Bacon (Head Surrounded by sides of beef, 1954) e Robert Rauschenberg (Booster, 1969). Ma è Meneghetti ad aver aperto la strada, anche se non si volesse prestare ascolto all’iperbolica annotazione di Gillo Dorfles del 1999: “Le radiografie di Meneghetti sono l’unico fatto nuovo intervenuto nell’arte italiana in questi ultimi vent’anni”.
Trasparenza e opacità sono i poli tra cui si gioca e si è giocata tutta la storia dell’arte, e “a ben vedere” (curiosa espressione), la storia del pensiero, del linguaggio, della politica. L’uso delle radiografie di cui Meneghetti è pioniere nell’estetica e nell’arte, il suo sguardo nel e attraverso il corpo (suo e altrui), mescolando identità e immaginazione, annullando la distinzione tra interno ed esterno, confondeva le frontiere tra pubblico e privato (privato di cosa?), visibile e invisibile (dicibile e indicibile). “Vedere oltre”, dice Meneghetti presentando le opere del ciclo destinato ai “grandi maestri”. Vedere attraverso, ciò che appare dietro e dentro l’apparenza o illusione della materia, fosse anche simbolica. Ma dietro le illusioni ci sono altre illusioni, altre materie e apparenze e forme, e il bello è proprio questo, il “bello” di ciò che chiamiamo arte.
Come spiegava Hubert Damisch in riferimento ai “crani”e “gusci” di François Rouan, la radiografia costituisce oggi per la pittura una sfida analoga a quella costituita a suo tempo dalla fotografia: il “non respiri” del radiologo si sostituisce al “non si muova” del fotografo. La scoperta e l’esplorazione del corpo dell’immaginario medico, tra gli ultimi avatar della rappresentazione, offre una intimità più che carnale, il “rovescio oscuro del corpo”, sua parte invisibile offerta alla dissezione e resa visibile da dispositivi artificiali, o attraversata nella sua materia, da raggi, fino all’aspetto raggelato e laminato dell’immagine finale, la radiografia. La relazione tra arte e radiografia medica svelava inoltre una curiosa similitudine tra i tavoli e le tavole anatomiche, tra i “modelli” utilizzati dagli studenti di medicina e quelli, come statue, degli studenti di Belle Arti.
Tra le conseguenze nell’arte, l’oggetto non è più considerato solo nella sua superficie, scrive Damisch, e nemmeno soltanto nei suoi diversi aspetti di superficie (come faceva il Cubismo), ma in ciò che ha di nascosto per l’occhio e lo sguardo correnti, benché visibile a certe condizioni e con certe apparecchiature. Damisch paragona questo sguardo tecnologico e complesso al cinema, le cui immagini sono sempre frutto di un montaggio, e il cui occhio (la camera) penetra nel cuore del reale solo tramite dispositivi che si interpongono tra gli “attori”e gli “spettatori”. La realtà che ne scaturisce è quanto di più artificiale, poiché nel cinema non vi è relazione diretta tra uomo e uomo, come tra pittore e realtà, ma una relazione scomposta, frammentata e ricomposta (rimontata) secondo regole e dispositivi tecnologici analoghi, in definitiva, a quelli di cui si serve oggi un chirurgo.
Il fatto è che anche lo sguardo radiografico del chirurgo, anche l’immagine medica, assurta a statuto di conoscenza, identificata dal senso comune come equivalente della verità, è anch’essa una rappresentazione culturale, soggetta a regole, credenze, interpretazioni. Lo sguardo supposto neutro e obiettivo “del cuore del reale” (a volte del cuore tout court) non è esente da soggettività e conflitti di inferenze. Anche le radiografie, insieme immagini e scrittura, sono “una foresta di simboli”. Senza dimenticare che la radiografia è sempre una proiezione, concetto che, dopo Freud, liquida ogni pretesa di obiettività, di “fissazione” della verità.
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Un bambino si stupisce con la mamma che gli scheletri facciano paura: “Siamo noi, no?”. Non sa, lui che peraltro adora i mostri, i fantasmi e ogni iconografia da brividi di Halloween, che le sue parole sono simili a quelle dei grandi maestri spirituali, come il patriarca Ajahn Chah, monaco buddhista thailandese della Scuola della Foresta, nel cui remoto monastero accoglieva i visitatori con un corpo né maschio né femmina, un cadavere la cui carne si è staccata lasciando solo lo scheletro, appeso alla sala principale. Scherniva la paura di coloro che camminano, mangiano e dormono con lo scheletro insieme a cui sono nati, eppure non l’hanno mai visto, prova che non conoscono se stessi. Nell’insegnamento paragonava spesso il proprio corpo a un blocco di ghiaccio, che come tale si disfa poco a poco. “Non siamo nessuno”, diceva.
La Chiesa si è preoccupata non poco in questi anni dell’invasività della festa americanizzata di Halloween a scapito di Ognissanti e del giorno dei Morti, e cerca di rinnovare il suo memento mori minacciato dal marketing della paura in una civiltà in cui la morte è ossessivamente evacuata e nascosta. Credo però che si tratti di un effetto di ritorno di qualcosa di più antico e rimosso.
Nella sua Storia della follia nell’età classica Michel Foucault mostrava l’intreccio tra paura della follìa e della morte alla base della nostra civiltà (quella dell’ormai archeologico capitalismo industriale, oggi capitalismo culturale, o dell’enterteinement). Se la morte rivelerebbe l’insensatezza della vita alla sua fine, la follia sarebbe l’esperienza dell’insensatezza durante la vita: “La sostituzione del tema della follia a quello della morte non segna una rottura ma una torsione all’interno della stessa inquietudine. È sempre in causa il nulla dell’esistenza, ma questo nulla non è più considerato un termine esterno, minaccia e conclusione, ma interno, forma costante dell’esistenza”. Foucault citava l’epica del Narrenshiff di Brandt e della Nave dei folli di Bosch, esempi di una lunga serie di opere che anticipavano con ironia già barocca il teschio di Amleto, e quell’intreccio di Follia e Ragione - follia “immanente alla ragione”, parte di essa, “verità della follia” tutt’uno con la ragione e il suo dominio - che ha in Don Chisciotte e Cartesio, accomunati dall’attraversamento di una “notte oscura” e dall’iperbolico dubbio sulla realtà della realtà - i suoi intercambiabili alfieri: “la testa che sarà cranio è già vuota. La follia è l’anticipo della morte”.
C’è qualcosa di stranamente tardo-medievale nella nostra epoca satura di distrazioni, diversioni, dalla sbronza globalizzata dell’happy hours alla trasformazione della realtà in reality. Fino all’empia e stupida onnipotenza del Potere attuale, quella del “corpo del capo”, cui “ciò che la morte smaschera non è nient’altro che maschera”, e a cui per scoprire il ghigno dello scheletro basta alzare un volto di gesso o di cerone. Una perdita di senso che Meneghetti ha espresso benissimo con la sua installazione del cervello gonfiabile (Optional), che dallo stato di miserabile, invisibile preservativo inutilizzato, si gonfia come una cattedrale (ma bisognerebbe parlare piuttosto di “erezione”) fino a contenere gli attoniti visitatori.
Ora, qual è l’attualità di questo tema riguardo al mondo delle immagini? Come già nell’età classica, follia è non saper più leggere le allegorie, è la perdita della memoria e dell’accesso ai simboli, della loro lingua, del codice condiviso (dunque dei valori), senza il quale essi, svuotati del loro aspetto simbolico, diventano puramente enigmatici, attraversati da una molteplicità di sensi arbitrari, nessuno dei quali prevalente. Non è stato questo il post-moderno? Tra segni del mutamento antropologico cruciale, nell’età classica come oggi, vi è la conversione del potere dell’immagine da insegnamento a fascinazione. Se la società dell’immagine e dello spettacolo è una società estetica, l’estetizzazione ha inglobato la sfera politica e la conoscenza.
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Per anni ho scritto sul tema del volto in opposizione al ritratto, affascinato dall’aspetto ectoplasmico, fantasmatico, della frontalità del volto che tanto più emerge quanto più appare sfigurato e disfatto, come la Sìndone, e che si oppone in ogni senso alla fisiognomica del ritratto, alla sua logica di cattura e di identificazione. La verità etica ed estetica emanata dal volto è la stessa del “fantasma”, il cui status ontologico ha da sempre a che fare con la clandestinità e l’alterità: l’assenza, il modo della presenza dell’altro in quanto altro (come direbbe Emmanuel Levinas). I volti appaiono anche scardinando la logica delle immagini prese dalle tecnologie dell’identificazione poliziesca, se riusciamo a renderle del tutto anonime, magari ingrandendole e sgranandole per ottenere quella qualità elegiaca delle immagini dei morti in bianco e nero di Christian Boltanski, o quelle sfuocate di Thomas Ruff, così simili a quelle dei desaparecidos, in cui chiunque può identificare fraternamente il proprio prossimo. Beninteso, “volto” è sempre il risultato di un procedimento di ospitalità, di un rituale etico-estetico di accoglienza, come l’esperienza di un’epifania. Etica è l’arte che conferisce agli oggetti lo statuto di volto, voltità.
Negli ultimi decenni l’uso delle immagini prodotte dalla tecnologia medica (raggi X, tomografie, risonanze ecc.) ha fatto emergere una nuova immagine del corpo che ridefinisce la nozione di ritratto e quindi il concetto di identità. Renato Meneghetti ridefinisce e interroga il ritratto (l’identità) delle opere d’arte (i “grandi maestri”) facendo emergere in esse il volto del corpo, quei tratti tanto più intimi e unici quanto più universali e ordinari che sono il volto interiore del corpo; e lo fa investendo le opere più note e ricorrenti nell’immaginario culturale e nella didattica dell’arte – da Durer a Picasso, da Leonardo a Magritte, da Canova a Modigliani, ecc. Frugare con lo sguardo sotto la pelle, scorticare i corpi, richiama la punizione crudele che nella prima era cristiana era riservata ai martiri (martyr, testimone): di cosa testimoniano i soggetti dei quadri di Meneghetti, dei “grandi maestri” o della loro ri-visitazione? Qual è il soggetto dell’opera? Dove comincia eventualmente il corpo, dove il ritratto (del fantasma) del corpo), dove si arresta, e dove ha inizio la proiezione? Soprattutto, che cosa vediamo in essi, che cosa in essi ci guarda, cioè ci riguarda?
Ricordiamo la formula potente di Francis Bacon: dipingere il sistema nervoso delle cose. Bacon dipingeva il divenire carne (meat) della carne (flesh) e viceversa, o con altra efficace sonorità il divenire viande (carne da macellare e mangiare) della chair (carne da accarezzare) e sempre viceversa, in un ciclo ininterrotto come il samsara induista e buddhista. Meneghetti non ci mostra la carne come Bacon né l’informe come Dubuffet, e nemmeno si tratta del “basso materialismo” di Georges Bataille, dove scandalosamente coincidono voluttà e ripugnanza. In compenso, tutti o quasi questi autori sono soggetto e oggetto dei suoi lavori. Mostrandoci l’oltre e il dentro del “corpo” dipinto dai “grandi maestri”, Meneghetti non persegue neppure il fantasma di un erotismo sotto pelle di Hans Bellmer, il disegnatore “dell’anatomia dell’immagine” e del desiderio; né la tradizione dell’emancipazione di forma e figura che, passando per gli Espressionisti, per L’écorché di Fautrier, arriva a Dubuffet o Bacon, e all’autoritratto di Jasper Johns. Meneghetti mostra il più ostinato e nudo dei fantasmi, fantasma del fantasma, lo scheletro, la “spina dorsale” (espressione da tempo immemorabile già metaforica) dei corpi, di tutti i corpi, anche quello della mela di Magritte o del manichino di De Chirico. Inoltre Meneghetti non ricava più dei “quadri” dalle immagini dell’interno dei corpi (radiografie), ma rende “corpi” le immagini degli altri quadri. Degli “avatara” dei quadri dei “grandi maestri” inventa e realizza un museo.
Nel corpus quindi di opere e corpi che vivono sulle tele dei “grandi maestri”, accomunati tra loro e allineati senza cura della storicità, delle diverse epoche ed estetiche - come in un concetto di antologia che sintetizza il post-moderno, e che è poi lo stesso insito da sempre in quei luoghi chiamati “musei” (come nel Musée imaginaire di André Malraux, o “museo dei musei”) - Meneghetti ristabilisce, quasi restaura e ripropone il rigore di una forma: quello che resta, ovvero che resiste, non solo alla decomposizione della pittura e a quella del nostro vedere, ma al rigor mortis: ossa, scheletro.
Sarebbe banale, per quanto del tutto vero, dire che il ciclo dei “grandi maestri” di Meneghetti dinamizzi il nostro sguardo e rapporto con le opere del passato, quasi le icone della storia dell’arte, del “museo immaginario” alla portata di tutti, mescolando tecniche e generi, pittura e raggi x, sovvertendo la presunta staticità delle opere del passato con l’uso del multimediale, accorciando infine la distanza tra l’arte e i suoi odierni fruitori.
“Grandi maestri”, dice: ma chi e che cosa è un maestro? Tra le diverse possibili definizioni, ne scelgo una: maestro è colui che – già coincidenza dell’insegnamento e dell’insegnante – indica la strada, l’itinerario per ritornare a casa, sapendo che non è mai quella che si è lasciata alle spalle.
Scegliere di mostrare lo scheletro, l’umano troppo umano di quella porzione di realtà che è l’arte, quegli individui con volti e nomi propri che sono le opere, è in fondo analogo se non equivalente a indicare e mostrare, come in tanti stiamo facendo in questa epoca, la carne del fantasma, lo spettro, il revenant, umana illusione di un ordine, una geometria, un récit, un’ossatura, una testimonianza, una sostanza – cranica o ilio-sacrale – comunque sia futura polvere, come nelle visioni del pittore di Jacques Spitz. Anche il corpo del pittore lo è. Variante del divenire carne con cui giocava Bacon, con cui da sempre gioca la pittura, sapendo che il samsara – il ciclo di illusioni, morti e rinascite - è già il nirvana - la liberazione delle illusioni - e l’una e l’altra sono la stessa cosa, come carne e polvere, e ossa.
Beppe Sebaste