SPECIMINA MIRABILUM
da una conversazione avvenuta a Roma nel 1999 con Alessia Tartaglia

Alessia Tartaglia

Tartaglia La pittura, un genere legato per definizione alla manualità, nella sua produzione artistica è stato frutto di vitalismo o di disciplina? Cos’è per lei dipingere?

Renato Meneghetti

Non sappiamo come sia nata l’arte più di quanto sappiamo come sia sorto il linguaggio. Dalla notte dei tempi, ci è noto però a che serva. È chiaro, per esempio, che esistono costruzioni assai belle, alcune delle quali sono vere e proprie opere d’arte, ma non c’è pressoché nessun edificio al mondo che non sia stato eretto in vista di uno scopo particolare. Dal punto di vista della utilità, per i primitivi non c’è differenza tra la costruzione di una capanna e la produzione di una immagine. Le capanne servono a proteggerli dalla pioggia, dal vento, dal sole e dagli spiriti che li generano; le immagini a difenderli contro questi ed altri poteri, non meno reali, delle forze della natura. Pitture e sculture, in altre parole, sono usate in funzione magica. L’immagine cioè è creata perché con il suo potere di evocazione produrrà l’effetto che noi vogliamo. Questo principio perenne, base anche della odierna pubblicità, mostra il potere divino della pittura, cioè la pittura come una veneranda divinità.
È chiaro, a questo punto, che se a un tratto ho pensato di raccontare quel che mi è successo, ci ho pensato in conseguenza di una necessità interiore. Benché io non sia certamente un letterato e non voglia esserlo; e trascinare l’intimo mio e una bella descrizione di sentimenti alla fiera letteraria, lo ritenga una indecenza ed una bassezza, prevedo che non si possano evitare descrizioni di sentimenti e riflessioni (neanche, forse, quelle banali).
Davvero non sono mai stato un sognatore. Ciò che pare sogno agli altri, ai più creduloni, a me sembra tanto reale quanto il formaggio al gatto. Non stupii, dunque, quando la Pittura un giorno mi apparve - era nera, avvolta nell’oro e nella notte - dicendo: «Figlio, non devi essere curioso né andare in cerca di preoccupazioni inutili. Che te ne importa di questo e di quello? Me devi seguire. Che ti importa se quel tale è così o così, come opera, come parla? Non avrai il dovere di rispondere per gli altri, ma di te dovrai render conto. Perché dunque te ne preoccupi? Ecco: io conosco tutti e vedo tutto quello che avviene sotto il sole.». Ella ancora parlò per illustrarmi la disposizione delle arti ancelle nella Rosa spirituale (è la prima fra esse e detiene il primato, come fra tutti i sensi il più caro è la vista), la struttura segreta del mondo e la regola dell’agire: «Come dunque ritiene la Fede Cattolica e la Sacra Scrittura insegna, il Padre è suprema origine delle cose, il Figlio perfettissima bellezza, lo Spirito Santo, beatissimo diletto. Il Padre è causa dell’universo creato, il Figlio è la luce in cui percepire la verità, e lo Spirito Santo è la fonte a cui bere la felicità». Dicendo allora di farmi servo del Bello, per illustrare il Vero, dileguò oscura nella tenebra.
Il giorno fu un attimo in contemplazione dell’orizzonte.
La notte successiva - mentre l’aria odorava di lauri e di limoni - nelle tenebre fonde della mia stanza si apre a un tratto un porta di ferro. Un vecchio con una torcia in mano entrò lentamente in quella che fu, in un battere di palpebre, una prigione.
Era il demonio, era desiderabile e disse di esser venuto a liberarmi. Egli mi offriva come dono la soluzione per far meglio il mio servigio.
[Quando le parole interiori vengono dal demonio, non solo non lasciano buoni effetti, ma ne producono di cattivi. Oltre a una grande aridità, l’anima prova un’inquietudine simile a quella che io ho sentito molte altre volte, allorché subii grandi tentazioni e sofferenze di diverso genere. Sembra che l’anima resista, si agiti, si affligga senza sapere perché, come se ciò che dice il demonio non fosse cattivo ma buono].
Mi disse: «la deviazione è utile quanto la rettitudine, o di più, dato che corregge l’intelletto dagli errori indotti dalla abitudine e rivela le forme comuni. Anche in questo caso, infatti, non si deve desistere dalla ricerca finché non se ne scopra la causa. Chi infatti avrà conosciuto le vie della natura, costui ne osserverà più facilmente anche le deviazioni. D’altra parte, chi ne avrà conosciuto le deviazioni, ne descriverà con maggior precisione le vie». Mi prese allora per il collo e per trenta anni mi trasse con sé, concedendo che servissi la pittura nella sola ora d’aria come fanno i carcerati: figurai allora le deviazioni che divorano gli uomini, delimitando il loro porcile - la società in cui ognuno meccanicamente opera - con sterco schifoso, il danaro, per tutti un profumo ed un’erba medica.
Sapevo di essere schiavo eppure traevo da ciò un velenoso piacere. E per restituirmi la vista, il demonio pretese, un tributo orrendo. Esso mi ha aperto nuovamente la via della pittura, portando quello sguardo - che avevo così a lungo mosso, cieco, sopra la linea dello orizzonte - sotto la pelle. Qui sta tutto ciò che ho vissuto, fino ad oggi. E non c’è nulla in ciò che possa essere ridotto al vitalismo o alla disciplina: benché peraltro non possa esistere la vita senza vitalismo o l’arte senza disciplina.

A.T.

Dopo aver indagato un forma per un torno di anni sempre piuttosto lungo, lei muta radicalmente stile, per esempio dalla pittura di getto ai monotipi, oppure dalla pittura modulare alla radiografia. Per sommi capi, mi pare che la traccia del suo lavoro vada verso la smaterializzazione dell’opera d’arte. Questa anoressia dell’immagine è fenomeno sociale e telematico o intuizione poetica?

R.M.

Sul processo del suo poetare Schiller ci ha illuminato con un’osservazione psicologica per lui stesso inesplicabile, ma certamente indubbia; egli confessa infatti di aver avuto davanti a sé e in sé, come in stato preparatorio all’atto del poetare, non qualcosa come una serie di immagini con una causalità ordinata di pensieri, ma piuttosto una disposizione musicale. Io ho sempre costantemente avvertito una sifatta tensione armonica, crescente per anni e poi, ogni volta, bruscamente spezzata.
La mia disgrazia, in fondo, è che, quando ero gravido di idee, nei miei primi anni, rimasi ipnotizzato dall’ideale. Perciò non metto al mondo che aborti, ed è per questo che la realtà non corrisponde mai in me ai miei brucianti desideri... Mi prende spesso un’intima angoscia di aver scambiato l’ideale con la realtà. Perché da sempre cerco l’invisibile, anziché viverlo.
Anche i miei primi lavori, piuttosto geometrici, erano un tentativo di scorgere la struttura segreta delle cose: perciò arrivai a sequenze di forme che spariscono o appaiono, tra l’essere ed il nulla, oppure ad immagini trasparenti. Spesso invoco la forma con una preghiera che risuona costantemente in me - Vieni, Mistero nascosto / , Vieni, Tesoro senza nome / Vieni, Realtà ineffabile - ma ho solo la memoria di ciò che abbiamo perduto ed il nostro sguardo non scorge più. Ho malinconia e dev’esser così: perché ogni discorso sulla vita dell’uomo senza una vena di malinconia è afono e stonato. Vi è della malinconia; perché anche colui che parla, ha sognato la sua fiaba di gioventù, la vecchia fiaba che tutti sanno, quella che si racconta ai bambini nelle veglie: «Laggiù, in fondo al bosco, egli vide un vecchio castello dove abitava una principessa…»

A.T.

Ma l’arte, nelle sue innumerevoli tecniche, è in lei un segno di opulenza espressiva? Sembra piuttosto il frutto di una catastrofe esistenziale...

R.M.

Quando l’anima non ha il permesso di sollevarsi nel mondo eterno dello Spirito, allora rimane lungo la via, e si delizia delle immagini rispecchiate nelle nubi, e piange sulla loro effimerità...
L’esistenza del poeta è perciò, come tale, un’esistenza infelice: essa è superiore alla finitezza e però non è l’infinitezza. Il poeta vede gli ideali ma non ha il vigore che dovrebbe avere per vestirsi di essi, la forza di realizzarli nella sua vita.
D’altra parte, la Disperazione è il più piccolo dei nostri errori.
Talvolta quando inseguo nella visione le forme, come il cacciatore i cervi presso la fonte cui l’anima anela, una sofferenza tormenta tutte le mie ossa, languore e stanchezza si insinuano in ogni mio muscolo e fibra. Mi tuffo allora, in cerca di una diversa via, ma le onde mi ributtano sempre più indietro; sembra che le cedevoli acque siano diventate dure ed è come se spingessi a forza dentro la pietra. Altre volte, mentre vago nel deserto alla ricerca di un miraggio, d’un tratto una corrente mi rapisce a volo; sono nell’aria ed è come se fossi nel fuoco. L’aria mi opprime come una montagna infuocata. Colpisce la mia pelle e la dissecca. Mi scivola giù dalla gola e la ustiona. Preme su di me e mi schiaccia ed io ho la sensazione che gli occhi stiano per schizzarmi fuori dalla testa, che la testa stia per saltare via dal corpo, che il corpo debba gonfiare e dilatarsi e scoppiare in mille pezzi. Appare allora in distanza un fiume ed avverto il mio corpo coprirsi di squame, quasi fossi un salmone, e la terra e l’erba intorno a me. Disperatamente tendo ancora una volta il naso verso il fiume, e salto, salto e salto pur sotto quella montagna d’aria. Posso saltare verso l’alto ma non in avanti, verso la vita: e tuttavia salto, perché ad ogni salto riesco ancora a vedere le onde scintillare e le acque incresparsi e capovolgersi. La mia figura appare allora innanzi a me, imperiosa e con occhi di fiamma. Sta’ calmo - mi dice - sta’ tranquillo, mio amato. Lascia andare il fiume. Dimentica le rive fangose, il letto di sabbia dove le ombre danzano verdi e tenebrose, e l’onda bruna canta solitaria. Sono uccisore di me stesso, metà di me mi ha tolto la vita intera: una vita che fra i suoi brutti difetti aveva ancora una promessa di bellezza, finisce ogni volta in un modo così spaventoso, in quel cerchio di visioni che ripete da sempre la mia esistenza.
Ma non dimentico mai, con Wilde, che il fine dell’arte è rivelare l’arte senza rivelare l’artista, perché in un certo qual modo un artista dovrebbe creare l’immagine e nulla includervi della propria vita ed è una vera disgrazia, una sciatteria, che al giorno d’oggi l’arte sia considerata come una forma di autobiografia, quando noi siamo nulla di fronte ad un dipinto: senza dubbio Caravaggio deve essere stato invidioso dei propri dipinti, perché mentre egli si consumava essi erano immortali, perché ogni minuto che passa toglie qualche cosa all’autore e dà qualche cosa alla tela.
L’idea che la biografia dell’artista abbia una importanza deriva essenzialmente dai romantici, innanzitutto da Schopenauer. Egli accoglie come principio di valore per le arti il contrasto tra il soggettivo e l’oggettivo, ma tale contrasto è inconsistente , poiché il soggetto, l’individuo che vuole e persegue i suoi fini egoistici, può essere pensato solo come avversario e non come origine dell’arte. In quanto però il soggetto è artista, esso è già liberato dalla sua volontà individuale, diventando per così dire un medium, attraverso cui l’unico soggetto, quale veramente è, celebra la sua liberazione dalla apparenza. Poiché soprattutto questo deve esserci chiaro, a nostra umiliazione ed esaltazione, che tutta la commedia dell’arte non viene affatto rappresentata per noi, per una nostra edificazione ed educazione, anzi che noi non siamo minimamente i veri creatori di quel mondo dell’arte; al contrario possiamo supporre di essere, per il suo vero Creatore, immagini e proiezioni artistiche, e di acquisire la nostra massima dignità nel significato di opere d’arte - poiché solo come fenomeni estetici l’esistenza e il mondo sono eternamente giustificati. Tutto il nostro sapere sull’arte è in fondo completamente illusorio, perché nelle nostre sensazioni non siamo un’unica ed identica cosa con l’Essere che, come unico Creatore e spettatore di quella commedia dell’arte, si procura un eterno godimento. Dunque solo nell’atto della creazione artistica il genio si fonde con quell’artista originario del mondo, cogliendo qualcosa dell’essenza dell’arte: in quella situazione egli è meravigliosamente simile alla perturbante immagine della fiaba, che può girare gli occhi e guardare se stessa; egli è contemporaneamente soggetto e oggetto, contemporaneamente poeta, attore e spettatore (Nietzsche, “La nascita della tragedia”). Ed è per questo che solo quando mi metto a dipingere io mi sento bene. Dimentico allora tutti i dispiaceri della vita, tutte le sofferenze; mi trovo col mio pensiero, mi sento felice...: un tale impeto non può non essere una vocazione divina. Non ho scelto da me la carriera di pittore: al contrario essa è una conseguenza di tutta la mia individualità e della mia aspirazione più profonda.
Ma la lotta più grande per ognuno di noi è contro se stesso ed ebbe con me il primo latte materno il mio carnefice, l’uomo che preferisce il possesso alla sottomissione, il vizio alla purezza, il rumore al silenzio, l’azione alla contemplazione, la morte alla vita. Egli avvelena ogni istante della mia esistenza, ma io so ormai - per aver visto e odorato e toccato l’inferno - che la collera, la gelosia, la cupidigia, la bramosia o la menzogna sono segni di imperfezione e ostacoli al risorgere dei sensi spirituali. E che chi vuole percorrere la via del perfezionamento ha il dovere di lottare contro questi difetti che fanno parte della natura umana: così, quando egli mi appare, feroce perché io faccia mie le sue armi, costantemente perdono, ed è questo per lui il dolore più grande. Ed ora perdona se quando parlo, dimentico talvolta che sto parlando con te... come innamorato della mia voce, della successione dei ricordi che mi appaiono e dominano...

A.T.

Nel suo lavoro persiste sicuramente quell’arrovellamento ‘concettuale’ che nell’arte italiana parte da Leonardo e arriva a Lucio Fontana. Lei si sente partecipe di tale linea?

R.M.

Ma lei davvero crede che non ci sia un ‘arrovellamento concettuale’ nella straordinaria coperta dello evangelario di Lindisfarne (un lavoro Northumbia, 698, mi pare), oppure nella pressoché coeva prefazione alla “Ars Grammatica” di Bonifacio? O crede che Reni e Caravaggio, Manzoni e Fontana si siano arrovellati più di Gherardo di Giovanni o del Botticelli quando dipinge la “Nascita di Venere”? E poi che centra Leonardo, multiforme inventore dello sfumato lineare e pittorico, con Fontana monomaniaco monocromo e tagliente? Questa sua ‘linea di arrovellamenti’ - uno dei molti curiosi teoremi che popolano la minore storia dell’arte - rammemora una favoletta sopra il riconoscimento dei simili, sulla base del noto principio per cui la cornacchia sta seduta a fianco alla cornacchia: si narra infatti che una cagna stesse sempre a dormire sulla stessa piastrella ed una volta Empedocle, al quale era stato chiesto perché lo facesse, rispose «la cagna ha una certa somiglianza con la piastrella». Se poi il senso della sua osservazione è un altro, vorrei rassicurarla: io opero su tutte le linee, quella del tram ed anche quella del telefono. Opero poi con 38, con 39, con 40 ed una volta operai persino con 43: mi ricordo che il dipinto variava tra il blu ed il rosso.

A.T.

Vorrei precisare. Mi pare costante, infatti, il suo bisogno di sperimentare nuove tecniche e materiali, dalla pittura al cinema, dalla scultura alla musica, alla fotografia, al teatro. Che valore attribuisce a tale sconfinamento? Non è un aspetto concettuale anche la presenza nelle sue radiografie della nozione di “natura morta”, pur spogliata di ogni orpello materiale? Mi chiedo se, nella sua onnivora produzione, l’arte sia una forma di difesa dalla vita o di conferma della morte. Se insomma porti l’uomo alla immortalità o da una morte all’altra... Non penso infatti che il suo movimentismo linguistico sia semplice spostamento, o tentativo di confrontarsi con il sistema dell’arte.

R.M.

Spesso ci si avvia con grandi propositi a cose serie, e si cuciono assieme due pezze di porpora vistosa, descrivendo il bosco sacro di Diana, l’ara, un corso d’acqua sinuoso tra belle campagne, il Reno, l’umido arcobaleno; e non ce n’era bisogno. Si era deciso di fare un’anfora perché dal tornio venisse fuori un orciuolo?
Come tutti anch’io un po’ ho letto e soprattutto ho visto. E frequento e tengo molti morti per maestri. In modo che a loro piaccia esser tali, però. Le darò un memorandum perché Lei prenda amore al furto di gran classe. Ricordi che le serrature sono come le donne: qualche volta ci vuole violenza, ma è preferibile la dolcezza. Si fa così e non si forza: la chiave falsa deve entrare nella serratura come una cannuccia di paglia dentro una granatina di limone. Si succhia tutto quello che c’è, leggermente, dolcemente, delicatamente, senza rovinare i mobili, perché non è roba nostra. Bisogna sempre fare in modo che il derubato non conservi un cattivo ricordo del furto.
Questo, lo spirito con cui affronto le mie fonti, anche se non mi preoccupo mai troppo di esse. Come non mi preoccupo di ogni distinta parte del quadro ma della calibratura dello insieme. Né di ogni affezione dell’arte, ma di come questo prisma si rifletta nella superiore unità della pittura. A Lei sola rendo culto.
Anche quando ho suonato mi sono risolto in pittura pura, costruendo un sistema di annotazione sul pentagramma, più volte eseguito in orchestra e leggibile anche dal computer, basato sulla forma, la ampiezza e la tonalità - variante tra l’azzurro, il rosso, il giallo ed il nero - di alcune macchie, cui sono associati i diversi strumenti: ciò che essi sviluppano - in termini di durata, altezza e armonia del suono - non è dunque che un modo di rendere volatile ed udibile la pittura.
Ma è un culto difficile, questo. Così, quando lavoro troppo di concetti divento oscuro; quando cerco la levigatezza perdo nerbo e slancio; quando aspiro al sublime ottengo la gonfiezza. E mi manca molto per dirmi un artista, come schiavo indegno di una padrona troppo esigente.
Eppure io procedo assolutamente sicuro, perché se, timoroso della bufera, striscio per terra su questa barca dell’ingegno, allora perdo la vista dei lampi ed il moto vorticoso delle acque e tutto ciò che può portarmi a fare finalmente un quadro come un tempio immortale.
Se lo spavento di far male fa cadere, e solo un miserabile incosciente può cercare una missione eroica, questa missione è per me ripristinare la Unità nel quadro e tra le arti, entro la forma della pittura.
Infatti, il modesto artigiano che esegue nel bronzo le molli capigliature e le unghie fa un brutto lavoro: egli non sa di dover rappresentare un insieme. E non è diverso colui che crede che l’udito, il tatto e l’olfatto non siano sommamente utili, direzionati e sottomessi alla vista solo perché è abituato a chiamarli con nomi diversi: ciò non è più strano di quella armonia di sensi che godiamo in Rimbaud (cui hanno affibbiato quell’asettico nome di “sinestesia”) oppure della descrizione, un tempo offerta ai Pisoni, di un pittore che fece una testa per unirla al collo di un cavallo con altre membra d’ogni provenienza, in questa bella donna chiusa in una coda nera di pesce. Non è davvero uno spettacolo risibile: perché il privilegio sommo dei pittori e dei poeti, da sempre, non è di tentare tutto, ma di creare.
Così, cara Alessia, se insiste a cercare un uomo sotto le molte maschere in cui ogni artista si rivela, sappia che semplicemente non v’è alcunché. O meglio, su questa scena, mentre sto cercando di rappresentare un dramma, mostrando nuda agli spettatori la mia autentica faccia, meriterebbe di esser presa a sassate e cacciata dall’Odeon come una mentecatta: spogliato l’attore, al posto di un giovane è apparso un vecchio; al posto di un re, uno schiavo; al posto di un Dio, un uomo da nulla. E questa commedia non è senza senso. Ricorda quando in quel teatro le quinte presero fuoco? Il buffone venne a darne notizia al pubblico. Si credette che fosse una battuta di spirito e si applaudì; egli ripeté l’avviso, e il divertimento aumento ancora. Ecco, penso che il mondo perirà tra il divertimento universale di codesta gente di spirito, di codesti esteti: essi crederanno sia una burla.

A.T.

Capisco. In questo senso, l’arte, nella sua produzione, è forma finita o confronto con l’infinito?

R.M.

L’arte è l’infinito visibile. Il rapporto tra finito e infinito è infine il problema della Incarnazione o, in generale, della rappresentabilità del Sacro.
L’uomo è infatti molto più complesso di quanto sottenda la sua osservazione e non si scioglie in aut-aut. Anche se la sorgente è unica, gli aspetti del creato sono tre.
Tutto infatti viene dall’Essere supremo uno e trino, come si impara al Catechismo: in termini più antichi Amon-Râ-Ptah. Ora se Phat è il motore della vita, Khum è il vasaio delle forme; egli è infatti la Potenza che unisce i semi umani che Amon-Râ ha benedetto col suo soffio (nef), affinché i due complementi, maschio e femmina, si trovino perfettamente congiunti (menkh) tramite la sua azione (khnem). In seguito egli li modella ‘con le proprie due mani’ per risvegliare Ptah fasciato e per rendere effettivi i doni delle diverse Hathor. Infatti al momento di ogni nascita Khnum è assistito da un certo numero di Potenze - o Entità funzionali: le due principali sono Meskhent e Renenutet. Queste potenze conferiscono all’individuo le caratteristiche che costituiranno la sua natura innata, natura che è il suo Ka: perciò su quel muro - nella stanza della nascita nel tempio di Luxor - puoi vedere Khnum nell’atto di modellare contemporaneamente il bambino che nasce ed il suo Ka.
Il Ka dunque è la caratteristica specifica in base alla quale ha preso forma lo Spirito incarnato; ed è l’elemento costante che assicura l’identità dell’essere umano, attraverso tutto il suo divenire (i suoi vari khepru).
Ma dal momento in cui il Ka prende corpo, sviluppa nel corpo stesso una energia personale, o volontà di esistenza, che diventerà l’inek (il cosiddetto Io, in termini psicanalitici). Ora, inek, forza primitiva e cieca dell’anima umana, e perciò priva di ogni sentimento superiore, è il principio dell’egoismo; e l’inek, crescendo in forza assieme al bambino, cristallizza a proprio vantaggio le tendenze del Ka per affermare la propria esistenza e assicurarsi una continuità.
L’inek - l’Io - sebbene sia una forza naturale cieca, appare dunque come la vera personalità, mentre invece non è che il riflesso del Ka dell’individuo; è l’Io che illude l’uomo sul valore del pensiero: ma il pensiero, a sua volta, non è che un gioco di forze effimere e di valori relativi; il pensiero è l’altro (ki) rispetto alla intelligenza del cuore (sia), come inek è l’altro rispetto a iu, l’essere.
Ogni valore reale appartiene al Ka: esso è ciò che tiene ‘legato’ lo Spirito; è il solo elemento grazie al quale potrà essere ottenuta la immortalità, la sola garanzia di perennità della entità umana, poiché il Ka è la caratteristica per eccellenza che ha affinità soltanto con i suoi elementi costitutivi, e si offre come rivelazione di Amon-Râ-Ptah, che lo animano.
L’Io - inek - accaparratore delle tendenze inferiori favorevoli al suo egoismo, non si cura minimamente delle affinità essenziali e utilizza senza scrupoli qualsiasi impulso eterogeneo esalti l’egocentrismo. Si vengono così ad accumulare gli elementi impuri e distruttibili che rappresentano per l’individuo gli ostacoli al ‘possesso’ del suo Ka su questa Terra e al suo definitivo ricongiungersi con esso nella Duat.
Il Ka ospita e rivela la corrispondenza e la similitudine tra tutte le parti del corpo e gli elementi dell’universo, tra il tubo digerente e l’estuario del Nilo, tra la struttura ossea delle nostre gambe e le dune nel deserto, tra una arcata dentaria ed una scogliera o un mare in tempesta, tra una colonna vertebrale e le Montagne rocciose, tra un cranio ed il deserto del Sahara, tra le nostre membrane ed organi molli e le nuvole; come anche tra un legno, un tessuto, un liquido e la volta celeste. Ciò è appunto il soggetto dei miei dipinti da oltre vent’anni.
Vi sono arrivato dopo aver percorso queste fasi preliminari della conoscenza, che conducono al Ka. Perché è proprio la coscienza, nel senso di confondimento dei vari elementi dell’individuo con quelli dell’universo, a costituire la spinta altruistica che allontana l’egoismo dello Inek. Tutte le tendenze accaparratrici del tuo Inek non hanno più ragion d’essere se tu diventi universale, cosciente della armonia cosmica, e cosciente del fatto che sia le tue qualità che la tua scienza non sono affatto personali, ma sono i riflessi imperfetti degli attributi del tuo Creatore.
È quanto ho cercato di spiegare anche prima, parlando di Schopenauer e dello inconsistente rapporto fra il soggettivo e l’oggettivo nell’opera d’arte.

A.T.

Benché il suo sguardo si posi sulla sapienza antica, nel suo lavoro esiste un atteggiamento intensamente teso alla comunicazione. Qual è l’influenza della telematica nella sua produzione attuale?

R.M.

Generalmente ritengo che gli strumenti siano semplicemente strumenti: la loro influenza finisce dove finisce il loro uso. La telematica è appunto uno strumento che io non uso. L’idea che l’ampia diffusione di questo strumento debba avere riflessi su ogni forma di creazione ed anzi che esso sia tanto eccezionale da non lasciare invariato alcun campo del sapere è simile alla convinzione di certi predicatori che ritenevano di poter usare le comete come argomento precipuo di conversione.
Ma se per mezzo delle comete i cristiani non imparavano nulla di nuovo sulla natura di Dio, come pretendere che apprendessero i pagani? Come immaginare che Dio abbia potuto esigere che i pagani avessero di lui una migliore conoscenza dopo aver visto una cometa?
Un astronomo sa, anche senza vedere le comete, che i movimenti dei cieli sono meravigliosi. Come ad un artista basta esaminare il più piccolo fruscello o una mosca per rendersi conto che ci sono più misteri in questi piccoli corpi di quanti non né offrirà mai tutta la tecnologia.
Per questo, è assurdo pensare che la telematica porti una maggiore capacità di comprensione all’arte, oppure che per forza l’arte debba interessarsi all’argomento.
È anche questo uno schema, derivato da quella ridicola costruzione dello Spirito del Tempo, che impone l’uso di certi mezzi e la frequentazione di certe idee: pena, non essere moderni.
Io provo una istintiva avversione per ogni forma di collettivismo, che si chiami razzismo, nazionalismo, comunismo o, per l’arte, periodismo.
La comprensione dell’opera di un artista (ed io non mi pretendo ancora tale) inizia quando finiscono i sistemi (gli schemi) ai quali pregiudizialmente crediamo egli debba attenersi. Infatti, nessuno sa cogliere più sottilmente il punto debole di ogni sistema; temibile quando dimostra, più temibile ancora quando obietta, dotato di una immaginazione feconda, quando dipinge egli contemporaneamente dimostra, seduce e domina.

A.T.

Capisco che lei sia contro lo storicismo, ma se l’arte è stanzialità di un’idea nello spazio, qual è il concetto di tempo che lei applica nel suo processo creativo?

R.M.

La stanzialità di una idea nello spazio? Un libro di formule matematiche è, forse, tale. Perché l’opera d’arte non è un’idea ma una emozione, non è stante ma vibra, non si risolve in se stessa ma è il riflesso dell’Eterno, che attrae il nostro sguardo.
So di tendere ad Origene, ma sono certo che, prima della nostra caduta, osservassimo la Bellezza splendente fra le realtà superne come Essere. E venuti quaggiù l’abbiamo colta con la più chiara delle nostre sensazioni, poiché ha in sorte di essere ciò che è più manifesto ed amabile e risplende in modo luminosissimo. Essa è il motivo per cui mettiamo tanto impegno per vedere nuovamente la Radura della Verità, ove l’anima trova il suo migliore nutrimento. La Bellezza ci è stata data come stimolo alla redenzione dello spirito, ed il Cristo infatti è detto perfettissima Bellezza.
Questo è il principio da cui parte l’artista, quali che siano il suo credo e l’ordine cui aspira. Egli sa, infatti, che chi ha progetti per un anno, semina del grano e chi ha progetti per dieci anni, pianta un albero. Ma se uno ha progetti per cento anni, ed oltre, diffonde bellezza. Infatti, seminando il grano si raccoglie una volta. Piantando un albero, dieci volte. Diffondendo bellezza, cento volte ed oltre.
Quanto a me, ho passato una parte così larga della vita, abbattuto a terra, a seminare grano. Poi, come uno di recente iniziato ai Misteri e che abbia molto contemplato la realtà, ho visto una forma spettrale e divina. Dapprima ho avvertito i brividi, poi la paura è penetrata in me, come un sudore caldo ed insolito. Attraverso gli occhi l’effluvio della bellezza mi ha pervaso ed ancora la venero e la adoro: perché ha restituito la vita alle ali, tanto a lungo inaridite. Esse hanno incominciato a crescere dalla radice, per tutta quanta la forma dell’anima. Perché l’anima un tempo era alata in ogni parte.
Il sentimento poetico è così simile allo innamoramento...

A.T.

Mi è chiaro che l’evoluzione della sua opera poggia sull’asse filosofico della dottrina neo-platonica, che d’altra parte ha retto l’evoluzione dell’arte europea dal manierismo ad oggi. In che misura sente di parteciparvi?

R.M.

Non capisco donde tragga tante convinzioni vaghe e malferme. Innanzitutto i capolavori chiaramente ispirati al neoplatonismo promulgato in alcuni circoli filosofici (tra cui il più famoso è animato da Lorenzo il Magnifico a Firenze) si esauriscono tutti entro la fine del Quattrocento. Cioè prima che il manierismo veda la luce. In secondo luogo, il concetto di evoluzione dell’arte è l’opposto di quanto tutta la dottrina neo-platonica - da Plotino a Porfirio allo gnosticismo - predica. Essa reputa in sintesi il divenire della realtà come inarrestabile allontanamento dall’Uno - il Bello, il Vero, il Buono - cioè come inarrestabile decadimento.
Vi è poi una varietà di credenze, alcune delle quali mutuate e mutate dal neo-platonismo e non originate in esso. Per esempio il legame fra il corpo umano e l’Universo - fra il Ka ed Amon-Râ-Ptah, fra l’anima e la Trinità - appare allora in forma simile come armonia universale: anche per i neoplatonici ogni parte dell’Universo è ritenuta in simpatia con l’altra, come una corda tesa nella quale la vibrazione dal basso si trasmette in alto. E questa armonia nasce dai simili e dai contrari al tempo stesso.

A.T.

Mi contengo in cose più tangibili. Mi chiedo anche se la sua capacità di anticipare certi aspetti della comunicazione attuale sia un fatto di pura osservazione oppure un risultato implicito nel suo linguaggio artistico.

R.M.

Le mie radiografie non hanno nulla a che fare con la pubblicità, anche se alcuni precisi moduli formali da me indagati, senza precedenti, dal 1978, sono apparsi negli ultimi anni, con grandi enfasi, in campagne pubblicitarie di argomento assai vario. La stessa radiografia è ormai un tema dominante. Sto appunto creando un ciclo sull’argomento, ‘riappropriazioni debite’.
Comunque, nei loro aspetti propri, pubblicità e Arte differiscono come scrittura e letteratura: la prima vive di grammatica, la seconda di poesia. Ci sono naturalmente pubblicità assai ben fatte, ma esse riescono interessanti solo negli aspetti non pubblicitarii, loro intimamente estranei, per quella cortina di persuasione, cioè, sparsa intorno all’oggetto promosso, con trucchi teatrali e latamente artistici. Anche sotto questo aspetto la pubblicità è pur sempre surrogato, suggestione spuria: dove non appare il tutto ma una parte, non si cerca il vero ma l’inganno.
Vorrei chiudere qui questa conversazione, ho parlato troppo. Per dire che, poi? Mai si troverà nelle mie carte (e questa è la mia consolazione) una sola spiegazione di ciò che in realtà ha riempito la mia vita. Non si troverà nei recessi della mia anima quel testo che spiega tutto e spesso muta ciò che il mondo tiene per bagatelle in avvenimenti di enorme importanza per me, avvenimenti che anch’io considero futili appena tolgo quella nota segreta che ne è la chiave.

A.T.

Noto con sorpresa che anche storici dell’arte antica si sono avvicinati alla sua opera; addirittura Sir Denis Mahon l’ha praticamente definita il novello Caravaggio, stesso cipiglio e brutto carattere.

R.M.

Si, si... stesso cipiglio e cattivo carattere... io sono buono, onesto, con solo un piccolo difetto che aveva anche Merisi: Andiamo a cena? Comunque prima di Mahon anche Federico Zeri e Andrea Emiliani hanno lodato i miei difetti.

A.T.

Veramente Emiliani dovrebbe esserle grato: ho sentito parlare di una donazione anche grazie alla quale la pinacoteca di Bologna ha potuto comprare un quadro importante, mi sembra un paesaggio prezioso di Annibale Carracci.

R.M.

Proprio un piccolo gesto.

A.T.

Piccolo gesto per lei abituale. Ho sentito parlare anche di Izmit, di Genova per la ricerca sul cancro, di Sarajevo per la Croce Rossa...

R.M.

Faccio quel che posso..

1999. Alessia Tartaglia