E' possibile oggi, a distanza di tanto tempo, fare un bilancio: tracciare delle linee direttrici. Prima, ai tempi dei "Fagocitanti" [1] e anche dopo, fino all'inizio del ciclo delle radiografie [2], l'urgenza dell'espressione era tale da impedire al critico una disamina a largo raggio. Non solo: ma l'irrequietezza stessa dell'artista, quel suo sfuggire ad ogni comoda prensilità estetica e culturale, il volgersi continuo del suo lavoro nella sperimentazione anche più convulsa, l'apertura più avanti (intorno al 1982] ai media più diversi, dalla fotografia [3] il cinema [4], dalla musica [5] al teatro [6], non potevano che essere paralizzanti per una puntualizzazione che fosse, appunto, storica. Ma è proprio per queste ragioni - ce ne rendiamo conto solo oggi - che Meneghetti è uno dei punti-chiave più netti e precisi per orizzontarci nell'interpretazione degli anni turbinosi tra i Sessanta e gli Ottanta. Il percorso di Meneghetti, da più di cinquant'anni a questa parte, è coerente, lineare, fin quasi al limite dell'ossessività.
L'uomo fagocitato è l'uomo in preda alle grandi droghe del secolo, dal denaro [7] al sesso [8], al potere [9], al vizio [10] in generale. Lui lo ha rappresentato in tutti i modi: nella frantumazione e dispersione delle cellule come nelle impietose radiografie di questi ultimi anni. Quando gli sembrava che la pittura non bastasse, eccolo passare alla fotografia, ai manichini [11] al cinema, anche alla musica, persino al teatro. Una vita avventurosa, piena di idee geniali, che vale la pena analizzare con ordine, in senso cronologico, seguendo la traccia delle riproduzioni (poche rispetto alla miriade degli esperimenti e alla molteplicità mediale e stilistica della ricerca) che compaiono in questa cronologia. Lo stesso Meneghetti se ne sorprende: ogni quadro è come il suo identikit, riflette i suoi tic nervosi, le sue manie ossessive, i suoi scatti, le sue psicosi, le sue frenesie.
Non occorre soffermarsi su taluni cicli che appaiono d'una qualità pittoricamente sbalorditiva, come ad esempio quelli delle donne fantomatiche [12], delle - pornografie [13], delle stesse foto di "Insania" [14], e parimenti di certe emulsioni fotografiche riprese col colore e riportate ad una dimensione fantastica. Anzi: talora Meneghetti pare persino compiacersi della bella pittura, sfiora raffinatezze indicibili, passaggi così sottili da diventare sfuggenti [15]. Quel che conta - lo diciamo a distanza ormai storica - è sempre e comunque l'autonomia del polso.
Meneghetti passa da una tematica all'altra, arriva persino - come s'è detto, a mediare al di là della pittura: ebbene, la riconoscibilità del segno è indefettibile. Nessun trasformismo; nessuna trasversalità; nessuno slittamento semantico. Poi c'è un altro elemento che resta peculiare in tutti gli anni di attività (e son più di cinquanta): una sorta di sensitività sempre sottesa, nevrotica, eccitata. Lo si nota dovunque: il quadro, fin dall'inizio, [16] è una "radiografia" (Monotipi 1964). Tant'è vero che le stesure, anche se si fanno nette come nelle "fagocitazioni" [17], e spesso bidimensionali, conservano un che di trasparente, come una membrana cartilaginea, una pelle sottile e fragilissima che scopre ossa e muscoli, una foglia sottilissima che rivela il senso del decadimento, dell'incipiente dissoluzione. E' per questo che la pittura è sempre di impianto simbolico (non simbolistico): rappresenta quel che c'è sotto, al di là; ci fa stravedere prima ancora che vedere. Questa capacità - è chiaro - nasce dall'interno, da una particolare predisposizione dell'artista; ma si nutre anche di una maestria tecnica in grado di ricondurre all'unità anche i frammenti più disparati, e senz'altro gli strumenti espressivi che magari potrebbero essere in contraddizione, come pittura e fotografia. Sapienti velature cromatiche; qualità magmatica delle stesure; dissoluzioni e sfrangiature [18]; smangiamenti materici al limite del pulviscolo atmosferico, come in certe opere di metà anni Settanta; vibrazioni della lastra magnetizzata; quasi scritture in trance [19] macchie che diventano leonardesche, cioè riflettono "mostri"; bordi che si screpolano e poi si ricompongono. Occorre sottolinearlo: qui siamo nel solco della pittura-pittura [20]; e proprio in un momento storico in cui la pittura-pittura viene palesemente negata. Meneghetti resta pittore anche quando esce (paradossalmente) dalla pittura.
Prensilità tattile e curiosità del vedere sono stati, fin dall'inizio, i motivi portanti dell'operazione che Renato Meneghetti ha portato avanti. Si può addirittura riandare all'infanzia, quando l'artista bassanese (nato nel 1947] aveva appena sette anni. "Ero bambino - egli mi racconta - e a mia madre dava fastidio che io sporcassi i pavimenti coi colori. Ad un certo punto non mi diede più soldi per comprarli. Cosa feci io? Raccolsi foglie secche e foglie verdi, sbriciolai un mattone, presi qua e là della terra; e mescolai il tutto con l'olio di oliva (avevamo un negozio di alimentari). Per dipingere strappai un vecchio lenzuolo e lo inchiodai su quattro assi da cassetta. Insomma, continuai a dipingere malgrado l'opposizione dei miei".
Può essere, questo, un episodio divertente; ma è indicativo. Quel bambino aveva una propensione non solo per il colore in sé, ma per la materia: voleva manipolarla, sentirla tattilmente sotto le dita.
Voleva anche, in un certo modo, vedere "oltre". Ecco un altro episodio che Meneghetti mi ha raccontato, proprio per indicare la sua propensione alla dinamica ottica. "Ero un bambino curioso, affascinato dal cinema. Mi chiedevo: come fanno a fare il cinema? Avevo otto anni e inventai, se posso dire così, una specie di macchina per fare il cinema. Trovai dei negativi di fotografie, li incollai tra loro, formando una lunga striscia. Presi poi una scatola di cartone, di quelle per le scarpe: vi feci un foro e vi inserii un tubo di carta igienica. Rubai gli occhiali della nonna, misi una lampadina dentro la scatola di cartone... Insomma, passando su e giù la striscia e mettendo a fuoco gli occhiali, mi parve di aver reinventato il cinema".
Anche questi due episodi possono dire qualcosa sulla "mania" che si agitava dentro il ragazzo. Dei primi dipinti, certo rudimentali, resta poco: quasi tutto perduto. Ma gli incunaboli eccoli qua, appesi ad una parte dello studio: sono alcuni quadri - veri e propri quadri - dipinti all'età di sette anni, nel 1954: "Lavandaia" [21] e "Ho visto il mare" [22]. Uno del 1960, soprattutto, mi pare interessante: è un olio su faesite che rappresenta una veduta del greto del Piave [23]: la materia è quasi monocroma, dà il senso della terra brulla; la mestizia di fondo è ravvivata dai segni a carboncino che indicano una certa gestualità nervosa, una voglia di andar oltre la convenzionalità dell'atmosfera.
Poco dopo, nel 1964, nascono i monotipi. [24] Racconta ancora lo stesso Meneghetti: "In quell'anno ero costretto a lavorare in un ufficio tecnico. Avevo a disposizione dei colori e dipingevo di nascosto, nello stesso ufficio. Un giorno mi cadde una macchia di colore sul tavolo. Per pulirla appoggiai sopra un foglio bianco; poi un altro. Mi accorsi che, con la pressione della mia mano, l'assorbimento del colore sul foglio cambiava. Allora dipinsi su un terzo foglio una figura e la asciugai, se così posso dire, con un altro foglio. La figura cambiava completamente. Capivo che con la sensibilità dei polpastrelli, premendo, potevo ottenere chiaroscuri e varianti formali". Niente di straordinario, s'intenda. Ma è curioso il fatto che Meneghetti andava scoprendo volta a volta, per sua personale esperienza, non quindi per acquisizione indiretta, i modi del dipingere; si può parlare giustamente di "piacere tattile sottile nel contatto della mano [25] un po' tremante col foglio sovrapposto alla matrice". Durante lo sfregamento "l'animo alterna i suoi moti". Sono momenti in cui l'artista percepisce la sua stessa sensibilità: quella sensibilità persino febbrile, eccitata, che lo porterà più avanti ad elaborare il colore con effetti di sfibramento e trasparenza quasi nevrotica.
I monotipi sono, in fondo, qualcosa che anticipa le radiografie [26]. L'inchiostro si espande in zone magmatiche, ora aggrumandosi ora dilatandosi, come si trattasse di un organismo vivente colto nei suoi movimenti reconditi. La qualità pittorica è innegabile, ravvivata da una propensione per i drammi della società, per quelle che allora si chiamavano "istanze sociali". Ecco l'urlo del mostro [27] (alla Munch); ecco il corteo dei dimostranti con la sua energia compressa; ecco il cupo trasporto di una bara [28]; ecco un esercito di ombre evanescenti [29] che, alla maniera di Balla, sembra avanzare nello spazio fantomatico; ecco il carcere [30], la monaca [31], il soldato [32]; ecco la crocifissione che alterna monotipo a disegno [33].
L'effetto è sempre di un movimento che da fisico diventa psicologico. Non è esagerato dire che già in quei fogli, eseguiti all'età di 17 anni, si scorge la propensione dell'artista ad uscire dall'immobilità della pittura per tentare sempre nuove strade, fino appunto a quella del cinema.
E' un'epoca, storicamente, di convulse transizioni. Nel 1964 la Pop Art americana invade la Biennale di Venezia espandendosi a macchia d'olio in Europa. Sembra che la stagione dell'Informale sia ormai finita, superata. Anche le tecniche dell'Espressionismo astratto vengono scavalcate dall'ingombro "freddo" dell'oggettualità di consumo.
Sorprendentemente ormai maturo è un altro dipinto, del 1965: raffigura dei baccalà appesi al soffitto [34]. Rigidi, quasi cadaverici, dai toni lividi, questi baccalà mi sembrano avere un quoziente simbolico molto forte. Ricordano tutto il clima che allora si chiamava neo-figurativo e che poi prese il nome di realismo esistenziale, specie nell'ambito milanese ma anche romano (da Ferroni a Vespignani, per citare due nomi): Meneghetti aveva diciotto anni.
Proprio sul finire del 1965 Meneghetti fa alcuni esercizi grafici tra Pop Art e Optical Art. C'è un disegno di donna con l'effetto di distorsione degli occhi [35]; un altro in cui compare il collage fotografico [36]. Contemporaneamente escono allo scoperto gli affreschi. Sono sei tavole che Meneghetti dipinge con la tecnica antica murale: la materia è rilevata, granulosa, tattilmente vibrata. Lui le chiama "le pareti perdute" [37]: c'è in realtà il senso della demolizione, la messa a nudo dell'intimità violata della casa, quindi anche una sorta di struggente nostalgia di cose perdute, ormai irrecuperabili.
vedi testo critico
"UNA SENTITA, SPONTANEA ISTANZA SOCIALE", a cura di Lucio Fontana - 1969
Ma nel contempo proprio quegli affreschi indicano la svolta storica del momento: cioè il passaggio dall'Informale materico, pregno di sensibilità tattile, a nuove modalità espressive, più vicine alla dimensione di un mondo tecnologico e massificato. Tra il 1965 e il 1966 Meneghetti si inserisce, sia pur ancora giovanissimo, nell'ambiente degli artisti, aprendo la sua pittura al sociale. Nascono i collages. A Padova vince un concorso sul tema della Natività con un collage di decine di fotografie ritagliate, incollate e rielaborate a china, in modo da rendere un'atmosfera unitaria, basata sui grigi spenti appena ravvivati da meste illuminazioni [38]. Qualche mese dopo ecco un altro primo premio (al Concorso Pettenon a San Martino di Lupari) con una composizione ancora di fondo fotografico sul tema "La neve cadeva ad Auschwitz" [39] : qui il timbro diventa tragico, con passaggi fumosi (i forni crematori) e un inserto di filo spinato che attraversa la composizione. Proprio questa apertura sperimentale (il collage, il filo spinato, la candela che avvolge di fumo l'immagine) ci dice di un Meneghetti sempre e comunque proteso al massimo di espressività anche fuori dai media tradizionali.
vedi testo
"Epistola di Sir Denis Mahon"
Siamo al momento storico della diffusione delle droghe, dei complessi rock famosi, come i Beatles, del pacifismo, dei figli dei fiori [40]. Meneghetti compie degli assemblaggi fotografici di motivi figurali emblematici; macera la carta, la lavora a china, la sporca e poi la ripulisce in vario modo. L'effetto è di un'attualità sconcertante: ricorda certe serigrafie di Andy Warhol (le più tragiche, desunte dalle foto dei giornali) ma con un senso più fantomatico, quasi allucinato. Al centro di una di queste composizioni l'occhio dell'artista si ingigantisce alla maniera optical, ruotando attorno alle scene fatte intravedere dai frammenti fotografici [41-a] [41-B].
Il 1967 segna la ripresa della tecnica dei monotipi. E' il momento in cui l'immagine diventa sensitiva al massimo, dissolta su grigi dilavati che risentono di una amara condizione esistenziale. Il monotipo si svincola dalla figurazione, diventa finissima texture su cui si intravedono, labili, segni che sono ora manuali ora meccanici (la scrittura a macchina) [42].: l'impressione è di preziosi fragilissimi papiri salvati dai millenni. Le immagini appaiono e dispaiono con un'ambiguità che le rende sempre mobili, prensili, secondo il dettato leonardesco (le muffe, le macchie sui muri, le efflorescenze, i microrganismi vegetali) e l'interpretazione che ne fa Freud (l'avvoltoio che appare nel manto della Sant'Anna) [43]. In queste opere, così affascinanti, si intuisce l'anticipazione della tecnica delle radiografie (cominciata nel 1979, quindi ben più avanti). La pittura si fa tessuto nevrotico, trasparente, come una pelle che rivela le nervature sottostanti. L'artista vuol quasi mettersi a nudo.
UN LUNGO PERCORSO: "LE FAGOCITATRICI OVVERO LA RICERCA DELL’INCONSCIO"
vedi testo critico sul percorso di Meneghetti:
"VEDERE DENTRO, VEDERE OLTRE", a cura di Luciano Caramel - 1999
Meneghetti esce prepotentemente allo scoperto proprio nel 1968, dopo una lunga serie, convulsa ma serrata, di ricerche linguistiche. Allora l'artista bassanese aveva giusto ventun anni. Non si possono fare per lui agganci stilistici precisi.
La Pop Art era già lontana, assimilata; i suoi seguaci italiani (da Schifano a Pozzati, da Ceroli a Del Pezzo, da Angeli a Gilardi) avevano già perso mordente; l'arte cinetica e programmata non trovava sbocchi di mercato; s'affacciava la Optical, che Meneghetti aveva sperimentato nel 1965, ma già come moda; l'astrazione geometrica tipo Dorazio stentava a riprendersi; si parlava vagamente di Arte ludica; i velleitarismi delle avanguardie più ardite (Manzoni, Pascali, Pistoletto) avevano già fatto boom. In sostanza il Sessantotto nasceva orfano di una tendenza forte: tant'è vero che alla Biennale di Venezia quasi tutti gli artisti italiani rovesciavano le loro opere per protesta e poi, perplessi, le rimisero a posto. Di fronte al percettivismo esibito dal padiglione italiano ai Giardini prevaleva lo sconforto: il nichilismo, la "morte dell'arte".
Meneghetti invece tentò, proprio in quell'anno, di visualizzare la crisi. Inventò le sue "fagocitatrici" [44]., caricando l'arte di un quoziente simbolico-espressivo duro, spietato, esasperato. Ma restò sempre nell'ambito della pittura come immagine. Lo riconobbe anche una mente non certo conformista come quella di Lucio Fontana quando scrisse che quei "tubi mostruosi ed informi, vivi di una propria vita meccanica", assorbivano "nel vuoto nero delle loro bocche gli individui massificati" [45].. Pittura ambigua sì, com'erano ambigui quei tempi; ma anche carica di un furore esistenziale che ben pochi riscontri aveva nel disagio e nell'incertezza degli artisti contemporanei, pronti più ad assimilare che, realmente, a contraddire; e comunque portati ad uscire dai media delle pittura per sprofondare nel vuoto delle ideologie. Oggi, rivedendo le "fagocitatrici", si rimane colpiti dalla perentorietà del polso, dalla violenza oscura della forma, dal suo movimento spietato, dal lancinante simbolismo dei colori.
Ma non è solo questa la qualità di Meneghetti. Forse allora era difficile rendersene conto; ma c'era, nelle "fagocitatrici" come negli sviluppi successivi, e indubbiamente fino alle opere più recenti, un'autonomia del segno che oggi addirittura si fa sbalorditiva. Non si tratta, come spesso capitava nella pittura di questo dopoguerra, di una sigla ripetuta, bensì di qualcosa che somiglia ad un'impronta esistenziale, ad un segno del tutto personale, ad una pulsione organica che non ha riscontri. In altre parole: mentre in genere i pittori post-sessantotteschi si lasciavano andare alla vertigine dell'ignoto, cioè ad una dissociazione dalla propria identità psico-fisica, in Meneghetti persiste - anche e soprattutto inconsciamente - una linea espressiva che passa dalla "fagocitatrici" [46]. agli "elementi fagocitanti"; si spezza e si frantuma senza perdersi; trasmuta dall'analisi alla sintesi e viceversa; si abbandona e scatta; diventa ora frenetica ora lirica e persino malinconica; coglie l'incubo ma anche l'utopia, cioè la speranza. E' una modalità spesso bidimensionale di incastro e scomposizione della forma, che alterna le curve sinuose agli angoli secchi senza perdere la sua peculiarità organica. Basta osservare, magari in sequenza rapida, i vari quadri, anzi partendo addirittura dai monotipi ante-68 [47]. e arrivando alle nervature luminescenti delle radiografie degli anni Ottanta e Novanta [48].
Una massa amorfa pare sollevarsi, gonfiarsi paurosamente, lievitare, muoversi. Da essa escono (o pare escano) alcuni buchi. La materia risucchia se stessa. I toni lividi sul giallo e sull'amaranto accentuano la sensazione di disagio. Siamo nel 1968. Quel che accade allora, nella società e tra gli individui, è ben noto. Ma chi, tra gli artisti del tempo, è riuscito a darci la sensazione di un malessere che quasi si rivoltava dallo stomaco in una serie di rigurgiti? Chi ha saputo, se non Meneghetti, imprimere la sensazione di una svolta culturale così profonda e, insieme, di un generale disorientamento? Guardo e riguardo il dipinto - uno dei tanti - intitolato "Fagocitanti I" [49].; e risento l'eco di un'epoca che è ancora impressa in tutti noi. Esso sintetizza una situazione: ingloba un momento storico e ce ne dà, categorialmente, una proiezione che potremmo definire universale. Sta qui, in questa straordinaria capacità di Meneghetti di cogliere i succhi amari di una svolta epocale, la qualità prima della sua pittura. Dalla massa amorfa e viscida delle "fagocitatrici" si intravedono i buchi neri del nostro universo [50].
"...Non le vedi? Sono spore che si aggirano nell'aria, sempre in agguato [51].. Si appoggiano sulla pelle dell'individuo e diventano malattia, lebbra...". Le parole di Renato Meneghetti mi allarmano. Quasi quasi ho timore nel toccare i quadri. In essi si aggirano le fagocitatrici. Lui sa bene cosa sono. Io che non so niente, o quasi, di biologia, capisco solo che la radice greca è faghein, che significa mangiare. Insomma questi fagociti ci fagocitano, ci smangiano tutti. Diventano una malattia; e la pittura non fa che rappresentare, per via simbolica, questa orrenda tabe che rischia di inglobarci (fagocitarci) tutti...Cattiva digestione?
Con Renato Meneghetti si può scherzare. Anzi, lui è sempre stato un po' egocentrico, narcisista e (simpaticamente) megalomane [52].
Ma son davvero dei difetti, questi? Mi trovo nel suo studio bassanese [53]., un vasto capannone in cui sono ammonticchiati con ordine centinaia di dipinti. L'uomo è pieno di vita: l'energia gli pulsa dentro, anche se talvolta lo vedo incerto, dubitante, perplesso. Tutte queste fagocitatrici, che si annidano nella pittura, lo eccitano e insieme lo deprimono. "Per me la pittura - dice - è un traslato che mette a nudo le piaghe della società. Noi tutti diventiamo dei fagocitati; siamo quasi risucchiati dal meccanismo fagocitante del cosiddetto sistema. Guarda bene questi elementi fagocitanti: si muovono sulla tela ma entrano anche dentro di noi. Ci rendono degli ingranaggi: ci tolgono la stessa capacità di pensare, di agire autonomamente. La mia pittura non è mai un giuoco edonistico, fine a se stesso. E' qualcosa che agisce sotto lo stimolo di pulsioni organico-cellulari. Vuole rendere visibile, quindi, anche la malattia endemica che coviamo dentro di noi. Per questo ho inventato, già nel 1968, le fagocitatrici".
"In quell'anno ho fatto il servizio militare. Sono stato subito fortunato. Dissi che ero pittore. Il colonnello mi chiese subito un ritratto. L'ho fatto splendidamente, con la spada. Da allora tutti gli ufficiali volevano da me un ritratto. In sostanza ero divenuto il pittore di corte. Potei così dedicarmi anche ai miei quadri, cioè alla pittura che sentivo mia. E fu un nuovo balzo in avanti".
In effetti nel primo periodo del servizio militare Meneghetti dipinse alcuni paesaggi. Sentiva la necessità non solo di tornare figurativo, ma anche di cimentarsi con la tecnica pittorica pura. Interessanti sono alcuni di questi paesaggi, che si presentano quasi come delle stratigrafie tettoniche [54] : la natura vista dal di fuori e nel contempo dal di dentro. C'è una straordinaria dolcezza nell'immersione dell'uomo nel buio organico, che diventa simbolicamente il buio psichico. Ma il colore è sinfonico, con splendide sfumature di tono. Le fagocitatrici sono pressoché contemporanee a questi paesaggi. Esse nascono non a caso durante il servizio militare, quando l'uomo (il soldato) si sente spersonalizzato, prigioniero di una macchina alla quale non può opporsi. In linea generale Meneghetti voleva dire allora (come vuol dire ancora oggi) che la macchina della società distrugge l'individuo: lo fagocita, lo priva di autonomia, di libertà, di vera capacità di creare. Dal punto di vista stilistico è indubbia un'ascendenza alla pittura Pop allora in voga: quindi bidimensionalità, contorni netti, colori di tipo industriale.
vedi testo critico sul percorso di Meneghetti: "LA STRUTTURA SEGRETA", a cura di Laura Cherubini - 1999 |
Il passaggio dalla macchina fagocitatrice agli elementi fagocitati [55]. (e viceversa) diventerà il leit-motiv di tutta la pittura di Meneghetti, fino almeno alla metà degli anni Ottanta. Lucio Fontana è stato tra i primi a capire e apprezzare le nuove pitture che dal 1968 l'artista andava realizzando. "In esse - egli ha scritto - reale e irreale, conscio e subconscio hanno frantumato ogni barriera e coesistono in un'atmosfera di rarefatta e personalissima vitalità". E ancora: "In tutte le opere sono presenti macchine, tubi mostruosi ed informi, vivi di una propria vita meccanica, che si attorcigliano ed assorbono, nel vuoto nero delle loro bocche, gli individui che, massificati [56]., si confondono in amorfi ammassi di stracci, oppure sfiorati da un debole soffio di vita vegetativa".
Che queste fagocitatrici rientrino nel discorso dell'alienazione dell'individuo nella società dei consumi ed è abbastanza chiaro che questi "agenti diabolici" che corrodono tutto siano principalmente il Sesso, il Potere e il Denaro. Per Meneghetti ciò che massimamente ci fagocita è proprio il denaro, che diviene il centro di una forte denuncia sociale e di un'aspra critica che percorre a più riprese il suo intero percorso artistico: la banconota diventa la "fagocitatrice massima" [57]. e chi ne fa uso improprio viene inesorabilmente fagocitato da questo "agente diabolico". Concetto questo approfondito ed esasperato nell'installazione "Nulla vita ex hoc pane" [58-A] [58-B].
(Titolo anche del video-arte omonimo) potente denuncia del potere malefico del denaro quale propellente e linfa vitale di guerre, massacri, eccidi e quanto di peggio si possa pensare. Il concetto da cui scaturisce l'opera è tragicamente semplice e concreto: Il denaro crea un ri-ciclo vizioso [59], che alimenta le guerre nel mondo: NO MONEY - NO WAR / NO WAR - NO MONEY. Tutta la pittura di Meneghetti diventa simbolicamente parlante (anzi, spesso urlante). Le immagini acquistano un forte quoziente simbolico, anche se restano perlopiù oscure, nel senso che non rappresentano, ma alludono, o al massimo evocano. Talora l'artista par voler stringere la morsa del "mostro" che egli stesso ha creato, ma raramente - almeno nei primi anni - la fagocitazione si piega all'oggetto in sé. Essa è, per sua natura, significante e nel contempo ambigua. Le macchine crescono a dismisura, si attorcigliano, si gonfiano, si dilatano; ma anche si restringono comprimendosi come un buco nero, condensando le pieghe di corpi informi [60]; diventano simulacri, totem orrendi, feticci che uniscono l'organico al meccanico. La serie di questi fagocitanti è veramente splendida: a distanza di più di trent'anni regge in modo persino sorprendente. Ciò che colpisce è la coerenza dello stile. Almeno a partire da quel fortunato 1968 (e in certi momenti anche da prima) Meneghetti rivela un polso che, qualsiasi forma esprima, lo fa con una autonomia simile a quella di un'impronta digitale. Noi siamo in grado di riconoscere, all'inizio come alla fine del ciclo (ma c'è poi una fine?) quel certo guizzo perentorio del segno, quella modalità ora trapezoidale ora romboidale, quel giuoco di incastri, quei continui chiasmi e intersezioni della forma, quelle alternanze di pieni e vuoti, soprattutto quel senso spettrale e fantomatico che assume l'immagine, sia essa compatta o spezzata, aggrovigliata o distesa. Per cinque anni Meneghetti porta avanti il suo discorso su queste macchine fagocitanti; e la pittura, sempre a tarsie bidimensionali ben congegnate e nel contempo distorte, conserva una sua forza dinamica prorompente. Come definire questo modo di dipingere? Lo accosterei a certo organicismo allora imperante; ma sarebbe difficile allineare, ad esempio, un inglese come Alan Davie ad un americano come Roy Lichtenstein. Tutto è serrato e anche fluido, secco e anche morbido, fantomatico, sempre spettrale, ma senza cedimenti neo-romantici. Le macchine aspirano ed annullano, soffocano e schiacciano. Quei tubi che ogni tanto si distinguono ci prospettano appunto un tipo di "meccanismo organico" che salda modalità minerali, vegetali e appunto organiche. Anche Francis Bacon lavorava, sia pure in modo diverso, ad una simile meta. Ma la qualità segnico-formale di Meneghetti è inequivocabile.
Dopo cinque anni, raggiunta ormai la notorietà, sazio e insieme insoddisfatto, Meneghetti prende uno dei suoi quadri, dal titolo "Ipotesi di sterminazione" e con il pennello nero ci scrive sopra, rabbiosamente: "Basta" [61]. E' il 1973. La serie finisce. Lui spiega: "Mi decido a voltar pagina. Faccio esplodere le mie macchine fagocitatrici. Continuo sì il mio discorso simbolico, ma arrivo a frantumare le forme, a dissociarle. L'immagine perde la sua mostruosa compattezza." A poco a poco nascono altri quadri, simili e pur diversi.
Il ciclo realizzato tra il 1977 e il 1978, intitolato agli "elementi fagocitanti", ha un carattere più intellettualistico, cioè meno istintuale. Si intuisce nell'aria il mutamento storico che sta subendo l'arte: dall'oggetto in sé (Pop Art) alla sua intellettualizzazione (Arte concettuale). Questi elementi, disciolti nell'aria [62], galleggiando in uno spazio amorfo, diventano - come si diceva all'inizio - spore che si aggrappano alla pelle e la corrodono, la incidono, la scarnificano, la putrefanno. Meneghetti ha in questi anni un timore di fondo: di essere frainteso, cioè di diventare oggetto di mero compiacimento formalistico (se non edonistico). Le tecnologie feticistiche in atto gli offrono il destro a "spiegazioni" che sono seriose insieme ironiche, anzi ciniche. Nelle composizioni di elementi fagocitanti, spesso spezzati in schegge convulse e disperate, egli appone delle scritte a mano [63]. Ad esempio: "Ingranaggi di avanzamento meccanico dell'Io verso le lame di aspirazione". Oppure: "Tubo aspirante snodabile: può essere puntato contro gli individui presenti entro un angolo di 360 gradi". E ancora: "Preriduttore: riduce in poltiglia l'Io prima della fagocitazione finale". Anche queste chiose rientrano nel linguaggio, magari esasperato e fuorviante, dei media. La scienza pare soccorrere le aspirazioni di un sistema che ormai punta tutto, più ancora di prima, a Denaro, Sesso e Potere. Comincia da qui (1979] una fase di travalicamento linguistico, cioè di ricerca di nuove modalità espressive. Meneghetti si chiese: serve ancora la pittura? Nasce la prima radiografia [64]. Poi ecco che prende dei manichini a misura umana e li dispone su una scena che è ancora quella della pittura ma se ne stacca bruscamente: "L'uomo ritorna - egli dice - alla sua forma umana, diventa scultura, immobile e apparentemente assoluta, come un parametro classico; ma parimenti non riesce a sfuggire alla fagocitazione. Il mostro lo ingoia". Ecco che questi manichini ora bianchi ora neri [65] avanzano nella notte: sono come dei simulacri sinistri. Appare una testa, si sporge un braccio. L'individuo ha perduto definitivamente la sua personalità, anche se presume si illude di essere ritornato allo stato naturale. Il titolo della serie è "Carrozzerie umane" [66]: ed è un titolo significativo. Una testa di manichino compare tagliata a metà: [67-A] - [67-B] uno specchio riflette il fruitore che entra nella scultura con gli elementi fagocitanti (ed è fagocitato egli stesso). E' chiaro che Meneghetti adopera materiali emblematici sia dell'Iperrealismo sia del Concettualismo (Pistoletto). Ma lo fa sempre in maniera autonoma, senza scimmiottamenti: soprattutto in una direzione che resta la sua.
Così, quasi contemporaneamente, la scultura entra nella tela e ritorna pittura [68]. E' uno dei cicli più incantevoli di Meneghetti.
Dal 1981 i volti dei manichini si riflettono nelle emulsioni fotografiche [69]: la pittura si fa raffinata, metafisica, sospesa nell'aria. I personaggi sono magari quelli del gran consumo giovanile (Mastelloni [70], David Bowie [71], Ivan Cattaneo [72], il leader dei Kiss [73]) i cui volti sfocati però rifiutano le luci psichedeliche: si rifugiano nelle mezzetinte grigiastre virate da colori astratti, irreali.
Sopra i volti si stende quasi una lebbra: comunque un velo malinconico, mesto, disperato. Su queste atmosfere dilavate si agitano i simboli fagocitanti, come piatte lingue di fuoco in continuo movimento. Si sente l'avvicinarsi di Meneghetti all'esperienza cinematografica, come se la fotografia (il collage, il riporto, l'emulsione) non bastasse più. Ecco lo strappo del negativo ai bordi; ecco i tagli obliqui delle immagini; ecco le velature in nero. Paiono gli effetti della pellicola spostata dalla moviola [74]. Si arriva alla spersonalizzazione totale dell'individuo: al manichino pittorico fantomatico, di sospensione metafisica, sommerso, larvale, quindi enigmatico e ambiguo.
E' qui che si innesta la poetica dell'occultamento e dello svelamento [75] , così ben precisata da un dotto scritto del sociologo Ferlin.
In una mostra a Bassano, nel 1981, Meneghetti propone pitture coprenti, del tutto amorfe, che il visitatore è invitato a svelare con uno straccio diluente. In tal modo viene scoperta, in modo casuale o comunque indeterminato, l'emulsione fotografica che c'è sotto, con le figure umane relative.
"L'opera - dice Meneghetti ai visitatori della mostra - la facciamo insieme" [76-A] [76-B] [76-C]. In un altro saggio di alta dottrina filosofica Roberto Guiducci inizia citando Freud: "Essere di nuovo, come nell'infanzia, il proprio ideale...è la felicità che gli uomini si ripromettono di conseguire". Ma arriva presto l'inganno: la verginità del fare (dello scoprire l'immagine) è illusoria. La nevrosi metropolitana, osserva Guiducci, mostrandoci manichini grotteschi, privi di storia, psicanalizzati, decodificati, "ci sorprende fagocitati, anziché fagocitanti". Così questi quadri, "alla cui superficie affiorano volti sbiaditi, come dimenticati e ricoperti dalla patina del tempo, simulano un futuro irreale".
E Guiducci cita Massimo Cacciari: "L'uomo postumo trascorre per infinite maschere senza fissarsi in nessuna". La prassi dello scoprire al di sotto - la prassi della sinopia negli affreschi [77-A] [77-B] [77-C] [77-D] - si rivela ancora una volta menzognera. La fagocitazione ci opprime.
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Da questo momento Meneghetti, pur senza abbandonare il medium pittorico, esce allo sbaraglio. Esegue una serie di fotografie che pubblica in un libro quanto meno insolito e provocatorio: "Insania" (1982] [78]. "Era un rischio, ma dovevo correrlo. Stavo cercando un mezzo più immediato, più pungente, più forte. Diventavo io stesso il soggetto-oggetto della fagocitazione".
Meneghetti si dipinge il volto, si camuffa, proietta luci e colori su se stesso [79] , si autodeforma, si travisa anche orrendamente [80], diventa egli stesso attore, maschera scenica, feticcio. La citazione di Nietzsche apre sintomaticamente il volume: "Chi sei tu, viandante? Ti vedo andare per la tua strada, senza schermo, senza amore, con uno sguardo indecifrabile; umido e triste come uno scandaglio che da ogni profondità riemerge insaziato alla luce - che cosa cercava là sotto? - con un petto che non sospira, con un labbro che cela il suo disgusto, con una mano che afferra ormai solo con lentezza: che sei tu? che cosa hai fatto tu?". Sono le stesse domande del Meneghetti viandante. Da queste mascherature fotografiche emerge la perplessità esistenziale di Meneghetti, supportata da una sorta di rabbia amara. L'istrionismo esibizionistico non è che il desiderio disperato di conoscersi e di conoscere. L'artista si identifica con i suoi cinici carcerieri: "Divento io stesso il Denaro [81] , il Sesso [82] , il Potere [83] ; ma alla fine mi tramuto anche in Cristo [84] , cioè nella speranza".
Ma bastano le immagini? "Ecco - dice ancora Meneghetti - che sento la necessità di tradurre queste immagini in suono, proprio per allargare il possesso del mezzo e quindi la mia forza d'espressione". Il Centro di ricerca sonologica dell'Università di Padova gli mette a disposizione i computer; e le emozioni di "Insania" si arricchiscono del suono. "Sono io, sempre io, che traduco al concerto le mie sensazioni". Il sistema è ingegnoso, basato su spartiti inventati da Meneghetti e raccordati con il computer. Nello stesso 1982 il "Concerto per immagini" di Meneghetti viene presentato alla Biennale di Venezia [85] , al Festival di musica contemporanea. Ma Meneghetti è insaziabile. "Avevo l'immagine-suono: mi mancava l'azione". Nasce quindi un film, "Divergenze Parallele" [86] , con dialoghi del sociologo Guiducci. "E' la storia della mia vita interiore - dice Meneghetti - con i contrasti che insorgono quando l'artista diventa imprenditore". Tra l'altro nel film (durata un'ora e 48 minuti) appare un concerto di manichini cristallizzati: ancora immagine e suono saldati. Il film ha un successo clamoroso: viene proiettato alla Mostra del cinema di Venezia nel 1983 [87] ; ed è ancora la Biennale a riconoscere le qualità creative di Meneghetti.
vedi testo critico
GLORIOSO. GLI ELEMENTI E LA DISCIPLINA DELLA VIOLENZA, a cura di Gregory J. Markopoulos - 1982
Finché arriva anche lo spettacolo teatrale, messo in scena dal Comune di Padova all'Arena romana, "sotto gli occhi di Giotto", per la Manifestazione "Patavanitas" [88] (Divergenze Parallele - Assolo concertante per mimo e orchestra). Palcoscenico grandioso (60 metri di fronte e 80 di profondità) e interesse straordinario, pur tra le mille perplessità dei benpensanti. Arriva, a coronamento, il premio "Fenice d'oro" quale miglior spettacolo teatrale del 1985. Queste uscite al di là delle tecniche tradizionali della pittura e della fotografia (film, concerto, teatro) sono da una parte la realizzazione del sogno multimediale di Meneghetti, il suo desiderio di una espressività globale, alla maniera dei Futuristi; ma dall'altra hanno un parallelo storico con esperienze parallele degli artisti più famosi sul piano mondiale. L'Arte concettuale si fa installazione, happening; si fonde con Land Art, Minimal Art, Fluxus, Arte povera: le avanguardie si mescolano. Ecco i Kosuth, i Cage, i Beuys, i Paolini, gli Andre, i Nauman, i Merz, tutti artisti che adoperano gli strumenti del consumo e della natura, le forme e i suoni, le azioni e i pensieri, in una sorta di utopia sincretista che parte dalla primarietà della natura per arrivare alle sofisticazioni delle più raffinata acculturazione. Gli anni tra Settanta e Ottanta in Europa e in America sono in realtà segnati proprio da questa fuga inebriante, anche se spesso i risultati sono di una prostrazione e di una nausea tipici della fase depressiva post-sessantottesca. Meneghetti comunque è là: fiuta le situazioni ed entra nel gran concerto multimediale.
Ma nel frattempo - ed è questa la sua precipua qualità - continua a far pittura. Nascono le nuove fagocitazioni. I fondi fotografici riportano immagini stereotipe di fumetti, di automobili da Formula 1 [89] , di scene di erotismo pornografico [90], di show televisivi, in genere di esempi di status symbol: è la società del consumo che preme dal di sotto. Gli elementi fagocitanti lampeggiano come scatti e guizzi di color violento. C'è una sorta di preludio alla morte (il collegamento con le radiografie, tema non ancora del tutto esplorato, è evidente): il patting resta quasi sempre funereo, d'una indicibile tristezza. Nascono le spersonalizzazioni da lavoro (gli operai con le maschere antigas [91] , autentici robot) che galleggiano in un'atmosfera di grigiore squallido. Anche le immagini di donne ieratiche, assorte nella loro sublime perfezione alla Nefertiti [92] , avvolte da una luce irreale, non sono che delle maschere tragiche: emblemi di un travisamento della stessa Bellezza. Appaiono volti allucinati, spettrali. I frammenti si associano e si dissociano, si assemblano e paiono scomparire nella macchina di un consumo ossessivo. Ritorna anche il monotipo: reminiscenze macerate, quasi sepolte, scorie meccaniche e organiche che tentano di uscire dalla loro fissità fantasmagorica. Si infittiscono i lampi rossi o neri delle fagocitazioni, diventando quasi scritture dall'oltretomba, impronte di fuoco, lacerazioni dolorose [93]. Talora maschere tragiche (frutti di "Insania") escono dal fondo nerastro.
Entra in giuoco anche la musica, con visualizzazioni di spartiti [94] (la "bellezza dello spartito", dice Boulez) e strane scritture musicali, che sembrano tradursi in impronte psichiche.
vedi testi critici:
IL COLORE DEL CORPO, a cura di Elenea Pontiggia-1999
RENATO MENEGHETTI: CORPI ALTRI, a cura di Flaminio Gualdoni - 2000
Ma sempre è evidente la qualità stilistica di Meneghetti, il suo segno peculiare. Anche quando (ed è una delle serie di maggior spessore) compaiono immagini desunte dalla pornografia di consumo [95] , quei fondi nerastri inglobano e quasi scompongono ossessivamente il piacere sessuale, avvicinandolo alla morte: diventano quasi, paradossalmente, degli apologhi morali. Nel 1984 arrivano i decoupage [96] , cioè la riscoperta dell'immagine anche attraverso lo strappo, oltre che la cancellazione. Curiosamente lo strappo riporta, nei suoi lembi dolorosi, la configurazione delle fagocitazioni: sembra che anche il caso (l'hasard surrealista) si saldi con la conformazione organica dell'artista. Poi le rotture e le ricomposizioni di specchi [97] ; e ancora il ritorno alla pittura pura [98] , magari neo-primitiva; il riporto fotografico usato in modo sempre diverso [99] ; la poetica del frammento classico ricomposto. [100]
Siamo nel 1985; e qui in un certo senso finisce quella che globalmente riassumiamo con la fase delle fagocitazioni. Meneghetti, con il suo frenetico attivismo, si dedica all'attività di designer [101] , per cui eccelle a livello nazionale: fa l'architetto [102] e lo scrittore; dirige ben sei riviste [103-A] [103-B] [103-c] [103-d]; si muove con straordinaria disinvoltura nel mondo della contemporaneità creativa. Sono anni però non di pausa, bensì di ripensamento, di sperimentazione, di attesa fremente.
vedi testo critico
EPIGRAFI PER LUCE SOLA, a cura di Marco di Capua - 1999
Tanto che prendono sempre più corpo le pitture dell'ultima sua fase: quelle che si identificano con le radiografie. [104]
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VEDER SOTTO: LA RADIOGRAFIA. QUALCOSA DI VICINO ALL’ANIMA DELL’UOMO
vedi testo critico
RADIOGRAFIE DI UN DESTINO, a cura di Gillo Dorfles - 2000
Non siamo abituati a vedere noi stessi: come siamo fatti al nostro interno: Eppure la pelle è un involucro delicato, fragile e per qualche verso trasparente. Uno strumento scientifico, la radiografia, ci aiuta in questa introspezione, che da fisiologica si fa psicologica, anzi psichica. Meneghetti ha sempre avuto fin dagli anni sessanta, cioè dai monotipi eseguiti da ragazzo [105] , questa attenzione, persino spasmodica, di fissare lo sguardo al di là del velo, al di là della materia, al di là dell'epitelio sensibile. All'inizio il monotipo è stato per lui una sorta di seconda o terza pelle. Sotto, ancora più sotto, pulsa il sangue, scattano le nervature, affiorano i muscoli, si intravedono le ossa. E' quel che ci rivela la radiografia. Nel 1981 l'emulsione fotografica di radiografie ingrandite sulla tela [106] fa da sfondo al serpeggiare degli elementi fagocitanti: alle lingue infuocate che assalgono l'individuo indifeso. Poi le radiografie di varie parti del corpo, dal femore alla mandibola [107] , dal cranio all'esofago [108] , diventano sempre più protagoniste del dipinto. Quando intorno al 1985 Meneghetti abbandona il discorso sulle fagocitazioni, ecco che le radiografie diventano protagoniste [109]. All'inizio sono quasi soltanto ingrandimenti nei toni originali del grigio [110], con le sfumature lievissime della lastra; poi arriva la colorazione, che non è mai arbitraria, ma segue espansioni e dilatazioni, sfocature e nervature, con un tono che nasce dal di dentro della forma, in maniera che si direbbe luministica. E' lo stesso effetto che si ha con l'illuminazione della lastra sul piano del radiologo. Soltanto che Meneghetti traccia, in questo modo, mappe straordinarie, tracciati fantastici, avventure improbabili eppur affascinanti dello spirito.
Le radiografie - soprattutto le più recenti, bellissime - vanno viste così: come mondi nuovi che ci svelano le stratigrafie dell'inconscio. Ad un certo momento si perde la percezione della parte anatomica [111] : la pittura ci fa veleggiare lontano, in spazi siderali; e quasi non ci accorgiamo che si tratta di spazi che non ci sono estranei, ma nascono dall'interno di noi. Ci chiediamo: non è forse questo il proseguimento del discorso che sempre, fin dall'inizio, con cocciutaggine e ansia continua, ha portato avanti Meneghetti?
Lo strumento tecnico è diverso; del tutto simile la finalità espressiva. Proprio da quest'arco temporale, che arriva a quasi cinquant'anni, si ricava il succo dell'arte di Meneghetti: un'esplorazione nelle pieghe e nelle piaghe dell'uomo; un'introspezione, fatta magari col bisturi, di "quel che c'è sotto"; la ricerca continua ed ossessiva della libertà, cioè dell'autonomia dell'individuo....E' un'avventura affascinante. Tanto più che a guidarci per mano oltre le colonne d'Ercole è un artista multimediale e sensitivo, frenetico e inventivo, che agisce in sintonia con il mondo della storia ma anche in perfetta aderenza alle oscure pulsioni della psiche. Cerchiamo di avvicinarci, sia pur lentamente, con cautela, a questi orizzonti nuovi che la pittura di Meneghetti, vestitasi quasi dei panni del radiologo, ci vuole indicare.
Ecco la radiografia di una mano [112] : il verde acido smangia le falangi che si protendono quasi in uno spasimo. Dalla mano esce un pennello che traccia un solco biancastro, una scia che si staglia sulla superficie con un'evidenza persino materica. Che significa? Non è soltanto la metafora della pittura, momento precario di un'illusione che si perde nel tempo. Siamo allo scontro basilare che apre tutto il discorso di Meneghetti sulla tematica radiografica: lo scontro tra la vita e la morte. All'impatto funereo dei raggi x si contrappone la vitalità del gesto. Tutto avviene su un fondo nero opaco: è qui che si gioca la grande partita a scacchi, il "memento mori" delle istorie medioevali tornano tragicamente tra noi. Dobbiamo cominciare ad imparare: la vista - il senso della vita - non ci basta più. D'ora in poi ogni immagine diventa simbolo; e ogni simbolo allude ad dramma esistenziale che cova dentro di noi. Uno dei primi quadri di Meneghetti desunto dalle radiografie, quasi impronta e sudario, data 1981.
Si affaccia al nostro sguardo un bambino tutto avvolto di finissime velature grigie da cui traspaiono le larve bianche delle ossa intraviste dallo strumento clinico. Ha la testa abnorme rispetto al torso [113]. La figura è spettrale, di impianto tragicamente grandioso. Ma ciò che colpisce sono quelle lingue di fuoco (le macchine fagocitatrici su cui tanto a lungo s'è cimentato Meneghetti) che sembrano divorare il magma corporeo, fino ad entrare, come una tabe maligna, nel cervello.
Ancora una volta la dialettica dei contrasti viene a galla prepotentemente: all'estenuato pallore della pellicola cinematografica fa contrasto il guizzo vitalistico dell'intervento pittorico. L'atmosfera riporta alla mente le fumose scene di certi film francesi di fine anni Trenta, come Quai des brumes e Hotel du Nord di Marcel Carnè. Il bianconero di quelle pellicole così pregne di malinconia si intride del sapore rancido delle radiografie; e magari riaffiora il brivido proprio del Settimo sigillo di Bergman, con la famosa partita a scacchi con la morte. (Tema sul quale Meneghetti ha lavorato con Roberto Guiducci già in Divergenze Parallele e successivamente in un videoarte divenuto anche pezzo teatrale.) C'è un che di strano, un disagio che si insinua sotto la pelle: il bambino assume le dimensioni d'un alieno, d'un extraterrestre. La metamorfosi si gonfia: Kakfa è alle porte.
Talora l'immagine si avvicina paurosamente. Il particolare di un'arcata dentaria [114] vista in radiografia rende mostruosa la fisionomia stessa dell'uomo. Eppure l'artista non s'accontenta di avvicinare o allontanare lo sguardo, di unire e fondere brani diversi, di evidenziare le fantomatiche nebbie. La sua mano intinta di colore scatta: la voglia di dipingere è troppo forte. Rivediamo oggi taluni quadri dei primi anni Ottanta ritoccati più tardi. I colori primari stridono con violenza. Sul cranio ingrigito spiccano, grottescamente, le labbra rosse [115] , d'un rosso fuoco; e l'orbita oculare appare all'improvviso cerchiata, bistrata di nero fondo, mentre a lato s'addensa una macchia di giallo. E' il momento in cui Meneghetti si avvicina di più a Warhol, senza perdere però le venature trasparenti che s'addensano sotto la pelle, tra le ossa ormai calcificate. Cosa intravede lo sguardo? Sembra una foto dall'alto, di quelle delle ricognizioni aeree.
Lì in fondo, tra le screziature ossee, s'infila il colpo secco d'una bomba [116]. Le luminescenze irradiano attimi di terrore.
E' sempre stato un assillo dell'uomo quello di voler "vedere sotto" cioè di scoprire quello che la pelle del nostro corpo nasconde. Non si tratta soltanto delle ossa, dei muscoli, del grasso, delle cartilagini, delle nervature che sottendono questa "macchina" meravigliosa: si tratta di intuire (almeno intuire) il motore più profondo: l'anima. Quel soffio di vita primordiale; quel respiro nascosto che muove le cose; quell'essenza tutta spirituale. Per secoli, per millenni, l'uomo ha frugato, ha cercato con curiosità e passione. L'arte, cioè l'intuizione lirico della conoscenza, ci ha spesso portati vicino a questo mistero. Ma certo che, appena intravediamo la grande scoperta, essa sembra sfuggirci. Quali sono gli strumenti più affinati per mirare, almeno, a questo scopo sublime? E quale ruolo giuoca l'arte, l'esercizio della pittura? Essa è soltanto appagamento dei sensi, piacere ineffabile? O non è, quasi, un bisturi che, incidendo nella nostra carne, tende appunto a svelarci "quel che c'è sotto"?
Elèmire Zolla, cultore di esotismo, ammonisce: "Quando si sia arrivati a comprendere la superficie dell'opera d'arte, a sentirne sensualmente la grana, a goderne l'equilibrio delle masse, la giusta intonazione dei colori, si sta soltanto ai primi elementi... Poi viene la parte più ardua e ardita, la rivelazione di verità intime, quali la parola non attinge". E' quanto si addice a tutto il percorso artistico di Meneghetti, ma soprattutto all'ultima sua parte: quella che riguarda le radiografie. Esse appaiono come una sottile membrana che nevroticamente ci svela appunto "quel che c'è sotto": le "verità intime" dell'uomo.
vedi testo critico "ALDILA' DELL'OCCHIO", a cura di Vittorio Sgarbi - 1999 |
DALLA RADIOGRAFIA ALL’ARTE: LA VERA RISCOPERTA DELL’UOMO
Il profilo di una mandibola [117-A] [117-b] si ingigantisce sempre più, si avvicina a noi, quasi ci assale nel suo abnorme ingrandimento: poi resta fisso, immobile. L'impatto può diventare traumatico. La nostra mente cerca di organizzarsi; ma l'immagine scivola immancabilmente dentro la psiche. Cosa diventa? Forse un paesaggio, con una luce stranita tutta gialla che si sfoca nelle nervature che paiono nuvole fermate impietosamente dall'obiettivo. Ma ecco che un'altra mandibola, sempre ingrandimento radiografico, si pone accanto: essa è invece virata su un tono rossastro. Le osserviamo entrambe: sono identiche, ma il colore dà a ciascuna di esse una sua interpretazione. Il paesaggio, che era filtrato dalla luce gialla, ora s'intorbidisce, diventa burrascoso, drammatico.
Sono due momenti atmosferici che diventano due momenti psicologici. La mandibola di destra, con quel rosso incupito che scivola paurosamente, si fa portatrice di minaccia: par quasi che la mandibola si sporga contro di noi. Eppure, i soggetti sono gli stessi. Ci chiediamo allarmati: sono due esempi di clonazione? Proserpina è la stessa: ma ora sta per uscire verso la primavera, ora ritorna nel buio degli Inferi... Meneghetti ci dice, con la sua pittura, quanto possa essere omologa la diversità.
Le nuvole di Truner sono le stesse di Constable? Il fatto che sia bastato un viraggio di colore per modificare l'impatto con un'unica immagine ci fa riflettere. La spazialità cosmica cui induce la dilatazione dell'immagine di una mandibola (ma può essere un femore o una falange) si collega alla profondità stessa del nostro cervello: cioè ai meccanismi abissali che regolano il processo del pensiero. La forma-colore perde il suo linguaggio autonomo: parla un'altra lingua. Freud è lì, a scavare col suo bisturi invisibile. Qualche volta finiamo addirittura per perdere il rapporto stesso col soggetto della radiografia: ci tuffiamo (voluttuosamente o paurosamente?) nel mare del colore che si scioglie, trapassa la forma, si coagula e si distende, pare raggrumarsi ma poi si libera nell'aria, come un respiro sottile. E' allora che noi vediamo (ma sarebbe più giusto dire: stravediamo) fiumi e laghi, strade e cieli, mari e colline [118]. Oppure restringiamo l'angolazione e ci par di trovarci dentro un vetrino istologico, curiosi del movimento delle amebe e degli spermatozoi [119-A] [119-B]. Il macrocosmo e il microcosmo finiscono per coincidere: l'arte ci conduce al di là dello spazio fisico, come al di là del tempo. L'ectoplasma ci spaventa [120]; ma poi cominciamo a familiarizzare con lui. Quelle ossa e quelle vertebre, quelle cartilagini e quelle muscolature ci divengono amiche: le vediamo con altro occhio.
La stessa cosa, in fondo, avviene con un grande artista quale Joan Mirò. Anche in Meneghetti, come in Mirò, l'arte spinge ad entrare in una dimensione "altra": che è la dimensione del primordiale, delle sensazioni primarie, quindi della simbologia aurorale. La forma ovoidale in Mirò ci riporta ad un mondo originario, in cui si agita una vitalità che prorompe gioiosamente, avidamente, con un senso di esplosione panica. Fissando le radiografie pittoriche di Meneghetti ci si rende conto che l'artista lavora con una lucidità impressionante.
Per lui la radiografia è uno strumento, come lo è per il medico. Il fine è quello di "veder oltre". Il colore, sovrapposto e insieme inserito, agglutinato, inglobato nell'immagine, ha una sua funzione: quella di evidenziare sempre più il contrasto, cioè la bipolarizzazione dell'immagine. E' come una lente deformante: la traslitterazione semantica che la pittura dell'immaginario [121] (penso a Fuseli, all'ultimo Goya, ma anche a Max Ernst) ha da sempre perseguito, sull'orlo stesso dell'allucinazione, quindi dello stravolgimento psichico. Soltanto che qui, in Meneghetti, la partenza non è dalla fantasia letteraria (l'insetto mostruoso partorito dal sonno) ma dalla radiografia scientifica. Su questa base l'artista ricostruisce e ripropone l'immagine: ne fa un tessuto larvale che, al limite, sfiora la squisita decorazione floreale [122]. Come non restare allibiti di fronte ai sottilissimi cangiatismi delle dita di una mano su cui subdolamente trapassano le velature cromatiche? Quei trascoloramenti, che arrivano talora al rosa shoking fluorescente o al bruno metallizzato [123] , conservano al loro interno un'ambiguità che - ancora una volta - è estetica ma anche esistenziale. Par di risentire sul fondo il canto dei bambini morti (il Totenlieder) di Mahler. Meneghetti ripropone, in un certo senso, il clima stravolto della Finis Austriae: quella musica dolcissima e insieme dolciastra che prelude alla tragedia della guerra, al massacro, laddove l'artista coglie gli ultimi sussulti di un piacere destinato a sfinirsi, a cadere riverso. Lo si intuisce: siamo tra Klimt e Schiele, in una sospensione del tempo che prelude al grande vuoto, al baratro senza fine. E' qui che piacere e morte ancora una volta ricongiungono: Eros e Thanatos, l'abbraccio dello scheletro alla carne fiorente della giovane donna.
Ambiguità. Meneghetti lavora sapientemente su tastiere diverse, come a sconvolgere meccanismi risaputi e convenzioni. In certi momenti l'occhio non distingue più la forma dal fondo: i due aspetti sono complementari, si intersecano, si alternano. Così il colore: che è talora finemente sgranato e talvolta violento fino allo choc. Cambiano le situazioni fisiche e cambiano le condizioni psicologiche. La pittura finisce per essere un tramite straordinario di conoscenza dei meccanismi psichici (GestalpsicologiA] : quindi essa stessa uno strumento scientifico, ben più profondo di quello della radiografia. Violenza e dolcezza si scambiano le parti: il tragico pallore della morte si vivifica nel soffio del colore e nel gesto irruento della pennellata [124].
Le mani ischeletrite si sfiorano, anzi si toccano [125]. Ma è un incontro o uno scontro? Un atto di amore o un moto di repulsione?
Certo, Meneghetti ci svela, col suo bisturi affilato, quel che c'è sotto l'epitelio umano. Il suo è un tentativo per farci mettere in comunicazione col profondo: una sonda. Quelle membra rattrappite, quelle ossa che vengono allo scoperto, quelle nervature che s'intravedono, non sono che uno spasimo, una richiesta di aiuto, un appello alla vita. La pittura tende a comunicare qualcosa.
E' un contatto accolto o un contatto negato? L'ossatura dell'immagine, slabbrata dal colore, attaccata dagli acidi, pare sgretolarsi, sfaldarsi, marcire.
La bellezza - se così si può dire - è la stessa vitalità che prorompe: tanto da confondersi con il caso, cioè con la nascita stessa della vita.
Un ingrandimento di budella umane [126] - tubi informi che risalgono ancora una volta all'idea delle fagocitatrici - ci invita ad infilarci nei meandri stessi di tessuti biologici in movimento; e la larva di un palato, di una lingua [127] , di un'arcata dentaria si fa paesaggio sconfinato, volto verso l'assoluto. Ma che accade? L'osso diventa nuvola; e dalla nuvola sembrano uscire sembianze umane urlanti [128].
Il semplice (per tornare a Mirò) si fa estremamente complesso; e viceversa. Riaffiora la fantasia metamorfica di Leonardo, che esce dalle muffe e dai fanghi per ricreare cavalli e cavalieri [129]. E' sempre da là, dall'introspezione della natura, dentro il paesaggio più intimo del corpo umano, che si proiettano le ombre ingigantite della fantasia. Da queste sensazioni primarie parte - come s'è già detto - l'avventura di Meneghetti. Per lui si realizza quanto andava predicando Nietzsche: "Noi artisti non siamo del viaggiatori: siamo dei viandanti. Andiamo alla ricerca del caso, scoprendo volta a volta le angolazioni meravigliose della vita".
Meneghetti è sempre stato consapevole di questa polivalenza dell'immagine: egli stesso (come nelle foto di "Insania") si fa protagonista e interprete del travisamento. Noi, ogni volta, riportiamo i suoi spunti ad archetipi convenzionali: riconosciamo cioè una testa, una nuvola, una roccia, un albero, magari uno scarabeo; ed è lui che, dietro, diventa il regista dell'operazione. Ecco così le opere che forse sono i capolavori di Meneghetti: due grandi teste di profilo, avvolte in colori diversi [130-A] [130-B]. Splendida pittura che non si sovrappone ma quasi di concilia con la radiografia. Il verde entra nella carne del rosso; e il bruno si scava un percorso misterioso nel blu.
Finalmente noi vediamo: cioè riconosciamo l'immagine. Vediamo attraverso l'arte, cioè superando i nostri meccanismi convenzionali. Nello stesso tempo "stravediamo", cioè andiamo al di là. Siamo in balia dell'artista: egli ci fa vedere un'arcata inferiore della mandibola e noi, sulla sua subdola spinta, percepiamo magari una fetta d'anguria [131] , una zucca, un kiwi [132]. L'artista-istrione, come Picasso, ci conduce per mano dovunque egli voglia: anche, come ha fatto in passato Meneghetti, sul terreno del teatro, della musica, del cinema; della performance.
Il paesaggio fantastico che egli ci propone attraverso la radiografia non è più ricolmo di ancestrali paure: è una scoperta del mondo, Friedrich si arrampica sulle bianche scogliere e finalmente "vede". L'arte si tramuta in qualcosa di sacrale: come un totem. Essa è reale e irreale, oggetto e fantasma, materia e spirito, vita o morte. Dietro di essa appare e dispare il simulacro penoso, tragico, dell'uomo.
vedi testo critico "LA MUSA SOFFERENTE", a cura di Duccio Trombadori - 1999 |
DAL 2000 LE RADIOGRAFIE DI MENEGHETTI DIVENTANO GRANDIOSE INSTALLAZIONI.
vedi testo critico
RENATO MENEGHETTI E LA COMUNICAZIONE GLOBALE, a cura di Pierre Restany - 2000
In questi ultimi anni, dal 1998 al 2001, Meneghetti ha portato avanti il discorso sulle radiografie collegandolo ad altre opere o installazioni secondo un disegno organico. In grandi mostre per lui allestite nel 2000 (basterà citare quella nella mastodontica Mole Vanvitelliana ad Ancona [133] e l'altra, clamorosa, nel prestigioso Palazzo della Ragione a Padova [134] egli ha dialogato con l'ambiente antico; e sono nate opere di straordinaria suggestione che pur partivano dallo sviluppo dei referti radiografici.
Nessun manierismo, quindi; nessuna ripetizione pedissequa di motivi: bensì una continua creazione "in work". Nuovi mondi; prospettive inedite; fughe utopiche; e, nel contempo, stretta aderenza ai dati scientifici dell'immagine ("Aldilà dell'occhio").
Dal 1988 le radiografie [135], ecografie [136], scintigrafie [137] e altri reperti scientifici [138], da cui Meneghetti ha tratto lo spunto per le sue opere recenti, non hanno investito soltanto parti anatomiche di uomini o animali [139]. La simbologia fantomatica s'è dilatata; ad esempio, con le radiografie di legni ("L'anima della foresta") [140], evocando paesaggi surreali. Il ritmo variabile delle venature del legno è servito per proporre scorci terrestri o marini, talora notturni, immersi nella nebbia o disegnati dal vento e dal sole diretto. Queste opere sono tra le più sorprendenti. Il dato di partenza quasi non si distingue, cosicché l'immagine acquista una sua autonomia che allude a qualcosa di mai visto; di assolutamente imprevisto.
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La finezza delle soluzioni grafiche e cromatiche [141] - come è stato rilevato dalla critica - propone una nuova allusività che diremmo cosmica.
Si resta attoniti di fronte alle onde siderali [142] che si espandono, alle concrezioni biologiche, alle trasparenze immaganti, a quella sorta di magma che investe l'immagine. Il colore diventa luce, aria, pulviscolo immateriale; e nel contempo rende il disfacimento di corpuscoli nello spazio. Sia pur con un linguaggio e una tecnica diversi. Meneghetti si avvicina, in queste opere desunte da materiale ligneo, allo struggente simbolismo del migliore Munch, quando la pittura si fa corrosa e sfatta, tutta macerata e ridotta a pura fibra dispersa nell'aria. Il paesaggio, in altre parole, diventa il magma dell'anima.
Da tali opere, nate appunto nel 1999 da radiografie di legni, Meneghetti ha tratto lo spunto per continuare la sua esplorazione degli elementi primari: la terra, l'aria, l'acqua, il fuoco. Ecco quindi le sculture in terracotta [143] e cotoni dipinti; composte in installazioni che hanno colpito soprattutto nelle mostre di Ancona e Padova. Si tratta di grandi strutture (alte anche alcuni metri) che evocano la forma di una palma, con i tipici segmenti circolari ("Paralleli vertebrali"). Qui l'evocazione radiografica è portata ad un livello di sublimazione psichica.
Il ciclo, intitolato "Terra e aria", esposto a Padova nel 2000, diventa quasi una struttura portante del corpo: la catena delle vertebre evoca un parallelo tra colonna e pianta; creando immagini che evocano "oasi pietrificate" dietro le quali si muovono radiografie di anatomie umane. Talora la suggestione porta ad interpretare "colonne di fumo e camini", che mettono in scena "la memoria cruda ed immediata di pire sacrificali o addirittura i forni di Dachau" [144] (Aldilà dell'occhio Dachau 7 a.m."). Verso l'alto queste colonne "vertebrate" si sfaldano, si aprono, quasi a testimoniare di un dolore che dall'elemento organico si trasferisce alla carne stessa dell'uomo. Chi - visitando una delle mostre di Meneghetti - si aggira all'interno di questa foresta "parlante", ha l'impressione di trovarsi in una fantomatica "città dei morti", in cui le colonne si aprono in crepe [145] , scanalature, accartocciamenti [146] , sfoghi naturali, magiche fessure [147]. E' il respiro della materia che vive, rendendo una unione imprevista tra il reperto archeologico e la testimonianza di una struttura vivente.
Nelle logge del Palazzo della Ragione, a Padova, "Omaggio ad Akira" [148], comprendeva installazioni di cotoni segnati con rilievi umani, che si muovevano al vento in una variazione continua di colori e forme indistinti: una evocazione appunto , tra suggestioni trecentesche, del "segno di Akira Kurosawa". Anche qui la radiografia è la base sommersa da cui Meneghetti parte. La lastra non è più qualcosa di statico: si muove nell'aria; ondeggia, subisce le offese continue della luce, provoca cangiantismi inattesi.
Ecco le "Trasparenze", altro ciclo che comprende, sempre in chiave di installazione nello spazio, lastre radiografiche attraversate dalla luce nella loro peculiare trasparenza. Ciò che colpisce è la simbiosi che si forma tra elementi di raffinata composizione estetica e impressionanti suggestioni simboliche. Le forme anatomiche date dalle radiografie galleggiano nell'aria in modo spettrale ("Gerusalemme, Gerusalemme"). [149]
La mostra padovana, intitolata "Sull'orlo del terzo millennio", ha avuto echi entusiastici da parte della critica più qualificata. Gillo Dorfles ha definito le radiografie di Meneghetti "l'unico fatto nuovo intervenuto nell'arte italiana in questi ultimi vent'anni", Achille Bonito Oliva ha deciso di esprimere le sue osservazioni in un apposito volume; così pure ha fatto Vittorio Sgarbi che ha parlato, durante una pubblica conferenza a Palazzo della Ragione, di "una bellezza straniata su cui alita il respiro della psiche". La mostra, oltretutto, ha chiuso con un eccezionale successo: più di ventimila visitatori.
Si arriva, così, alle "vetrate" ("La struttura segreta") [150], il cui più fantastico esempio è dato dalla trasformazione nel 2000 delle finestre di Palazzo Passuello a Bassano del Grappa, una architettura Liberty del 1907 che è studio dell'artista. Le lastre mostrano, esaltate attraverso la luce che filtra dall'interno, parti di corpi in trasparenza: "trasfigurazioni di ciò che in natura è invisibile", quindi metafore di una scrittura che diventa "significante" in quanto si fa essa stessa descrizione e raffigurazione di corpi umani. Soprattutto di notte l'effetto è straordinario; il richiamo è alle vetrate gotiche delle cattedrali tedesche; ectoplasmi di luce che attraggono e, nel contempo, turbano.
vedi testo critico IL CORPO OSCURO DEL COLORE, a cura di Manlio Brusatin - 2000 |
Il senso sacrificale di un rito misterico - come è stato sottolineato dalla critica - diventa ancor più pressante nel ciclo "Gerusalemme, Gerusalemme". Qui le lastre radiografiche appaiono sospese nello spazio "pesante" di una cripta: diventano impressionanti per la deformazione delle figure nel contrasto con le dure pietre del sacello. La simbologia cristologica è evidente. E' il dolore che rimbalza tra le pareti scabre, scivolando tra le lastre e impregnandosi quasi ovunque, attraverso una luce che diventa vischiosa. Un grido pare rimbombare: "Gerusalemme! Gerusalemme!" [151] , sovrastando le musiche composte dallo stesso Meneghetti.
Proprio l'incombere dall'alto delle immagini; intersecate dal segno della Croce ("Golgota quotidiano") [152] , rende l'atmosfera irreale: tutto volge verso un'ascesi mistica. E basta un soffio d'aria, il respiro d'un visitatore, per muovere il giuoco di luci ed ombre che rievoca il mistero. E' come "un venir meno del corpo: un sublimarsi di esso nel simbolo della croce". Niente è inerte: si scoprono le tracce di una matita che par uscire da una forza sotterranea: ecco che queste tracce prendono il profilo di un leone avvolto nelle fiamme. E le croci si ingigantiscono, occupano lo spazio in cui ci muoviamo: si fanno esse stesse popolo di viandanti in cerca della Redenzione. Meneghetti continua nelle sue installazioni; sono opere tra le più recenti e significative del suo viaggio avventuroso "oltre le colonne d'Ercole" della nostra immaginazione. Grandi scatole di metallo ("Light Boxes", 1999] [153] contengono e sostengono immagini di colonne vertebrali illuminate dal retro; simili nella misura e nella forma ad alberi, a fusti di palme ("Vertebrati Paralleli"), ma innaturali nella cromia. Si arriva ad una sorta di disorientante paesaggio mentale. Ora le fantomatiche lastre, ingigantite oltre misura, paiono riflettere le turbe della nostra psiche, i nodi più reconditi che si avviluppano nel nostro organismo: tanto più che noi siamo costretti a camminare "attraverso" questi involucri di luce. Realtà e irrealtà si fondono: materia e fantasia si contaminano. Durante la contestazione del '68 Meneghetti immaginò l'uomo divorato da quel meccanismo sociale il cui "carburante" è il denaro. Ora egli, in una installazione del 2000, parte proprio dalla Pietra del Vituperio, che ha ospitato per secoli a Padova i condannati alla vergogna; essa appare cosparsa di trenta monete [154] , tondi radiografici compressi in forme plastiche [155] e distinti dal segno degli strumenti del pasto. Sono "memorie del Tradimento", ripetuto - come dice Meneghetti - ogni volta che l'"uomo perde se stesso per nutrirsi di denaro" ("Pietra del Vituperio, commestibile quotidiano").
Finché si arriva all'inizio del 2001, sempre con le installazioni, ad una serie di scatti fotografici, elaborati al computer [156] , che rappresentano sacchi e sugheri ammassati alla rinfusa in grandi cataste, "come masse di uomini senza possibilità di visione e movimento, sopra le quali si agitano ombre anatomiche". E' sempre la simbologia esistenziale che domina; e il richiamo ad opere di trenta e più anni orsono non fa che testimoniare dell'estrema coerenza di Meneghetti nell'elaborazione del suo lavoro d'artista. Meneghetti è una continua fucina di creazioni.
A Padova, si sono viste o riviste talune sculture di surreale fascino, come le catene verticali di "teste" in gres ceramico [157-A] [157-B] , oppure il bassorilievo "Icaro" [158] in gesso, foglia d'oro e smalto, o le figure in legno a più strati ("Maitresse mutante") [159] , o quelle in metallo "spaccato" ("Omaggio a Giorgio") [160]. Del pari compaiono le radiografie della serie "L'anima del quotidiano" [161] : sono impressioni di oggetti d'uso, come televisori [162] , telefoni [163] , scarpe, computer, chiavi, penne, valigie [164] , borse, ecc., simili alle immagini che si vedono nella macchina a raggi X negli aeroporti ("Violazione della privacy") [165]. Curioso: nel nostro inconscio collettivo queste immagini, che pur dovrebbero risultare meramente documentarie, assumono implicazioni psichiche, confondendosi con le radiografie di anatomie umane. Qualcosa di misterioso gira per l'aria, assorbendo i fantasmi che scorrono dentro di noi. C'è poi - nel riepilogare fatti e discorsi recenti - quella che Meneghetti chiama "l'aura viandante". Se ne è parlato a lungo, ma vale riportarne i concetti essenziali, proprio perché si tratta di un fatto che investe lo sviluppo stesso della storia dell'arte in questi ultimi anni. Si tratta di una forma di "irradiazione" nata nel 1979, quando Meneghetti rimase colpito dalle radiografie che si trovò in mano in seguito ad una malattia. Nella fantasia allora esulcerata dell'artista quelle radiografie divennero significanti: si trasformarono, si tramutarono in memoria artistica, cioè in opera d'arte. Da allora sono passati molti anni. Meneghetti si è accorto di essere stato, allora, l'iniziatore sia pur inconsapevole di una "proliferazione" in tutto il mondo di lastre radiografiche in chiave estetica. Gli esempi, raccolti un dossier, sono numerosissimi: sono stati elencati e studiati in un saggio apposito. Sta di fatto che Meneghetti s'è trovato ad essere il caposcuola di una tendenza: o comunque il prototipo.
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Quelle luminescenze larvali, quell'affiorare in negativo di strutture ossee, quell'entrare sotto la pelle, dentro la carne; tra le venature, in mezzo ai muscoli; soprattutto quel senso di stupefatto mistero, quasi di tabù, nell'avventurarsi all'interno di un altro essere umano, e magari quel ritrovarsi in un tunnel a metà tra la vita e la morte, anzi a due passi dalla morte... Ebbene, tutto questo è entrato nell'immaginario collettivo più attuale. Un'invenzione o una scoperta: soprattutto una priorità che dimostra come l'arte di Meneghetti sia ormai entrata in profondità nel nostro corpo sociale: non sia cioè un mero giuoco di illusione, ma la testimonianza di una esigenza originaria dell'uomo, che riemerge sempre più.
L' "Aura Viandante" di Meneghetti, cioè, ha lasciato dietro di sé un segno indelebile. Nasce così il ciclo "Ri-Appropriazioni debite".
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vedi testo critico PASSAGGI: SFATTE CARNI E MORBIDE OSSA, a cura di Alberto Abruzzese - 2003
MENEGHETTI NEL TERZO MILLENNIO
Dal 2000 Meneghetti si stacca dolorosamente ma non totalmente dalla pittura infatti continua a dipingere pur dedicando molto lavoro alle grandi installazioni mantenendo come dato di partenza la radiografia. Si impegne a fondo anche nella video-arte, riprendendo così la grande passione per il cinema.
vedi testo critico "LO SCORRERE DELL'OPERA" a cura di Gabriele Perretta - 1999-2005 |
Ecco allora le grandi mostre romane del 2006 [167]. Per la prima volta nella storia della Capitale un così grande dispiegamento di Istituzioni, di spazi espositivi e di forze si è mosso per un artista contemporaneo. Quattro mostre in quattro prestigiose sedi, promosse dal Ministero per i Beni e le Attività Culturali Sovrintendenza Speciale per il Polo museale Romano, con il patrocinio del Comune, della Provincia di Roma e della Regione Lazio: Palazzo Venezia (Sala Regia e Sala delle Battaglie) - Complesso Monumentale del Santo Spirito in Sassia - Corsia Sistina - Sala 1 Scala Santa - ACS Archivio Centrale dello Stato. La personale "MENEGHETTI A ROMA" è a cura di Achille Bonito Oliva. Electa editore né pubblica il catalogo e un libro monografico di cui è autore lo stesso Achille Bonito Oliva con saggi di Alberto Abruzzese, Don Giuseppe Billi, Paolo Fabbri, Laurence A. Rickels, Claudio Strinati, e una intervista di Tommaso Trini.
Nel comunicato stampa conclusivo possiamo intravedere l'impatto delle 4 mostre romane sul pubblico e sul contesto urbano nonché la portata dell'evento in relazione alle manifestazioni artistiche in atto in tutta Italia nel medesimo periodo: L'evento non è nato senza polemiche: l'installazione in Piazza Venezia di una grande scultura contro la guerra - OPTIONAL, raffigurante un cervello di dimensioni monumentali che si gonfia e si sgonfia tra allarmi militari - è stata rigettata dal Gabinetto del Sindaco Veltroni perché - sembra - troppo polemica. Opera del resto ben accettata dalla città di Milano al Castello Sforzesco dove è stata presentata in anteprima assoluta, in concomitanza con la mostra "Leonardo i codici del Castello Sforzesco, e comunque esposta a Roma per due mesi al Museo di Palazzo Venezia. Di Meneghetti molto ha scritto la maggiore critica italiana. Federico Zeri ha definito Meneghetti il Pisanello del terzo millennio (RAI Educational " La storia dell'arte secondo Federico Zeri"), Sgarbi lo ha ironicamente accostato a Giotto in occasione della grande mostra in Palazzo della Ragione a Padova nel 2000, più volte è stato associato a Leonardo da molti critici e storici dell'arte, Sir Denis Mahon ha riscontrato in Meneghetti il carattere tremendo del Caravaggio e via via negli oltre cinquant'anni di carriera, tanti strani paralleli; infatti la mostra si è trasformata in un evento culturale di grosso spessore nell'anno in cui vediamo Leonardo a Milano e a Firenze, Mantegna a Mantova, Gentile da Fabriano a Fabriano, Bellini e Tiepolo a Rovigo, a Roma Antonello da Messina, Raffaello, la Cina e Modigliani, a Brescia Turner e gli impressionisti e Mondrian. "Meneghetti a Roma" di Achille Bonito Oliva è quindi in buona compagnia in Italia e a Roma.
E' certamente una mostra difficile nella quale il tema del dolore non solo fisico, ma anche il dolore causato sviluppato con modalità e linguaggi differenti è sicuramente il filo conduttore e l'elemento ricorrente nelle opere di Meneghetti e nei lavori esposti nelle quattro mostre romane. Come aveva pensato Achille Bonito Oliva, fra i 4 spazi è stato creato un legame non solo fisico ma anche concettuale. Riportando alcuni stralci dei comunicati stampa relativi alle inaugurazioni delle 4 mostre romane è possibile percepire l'enorme partecipazione dei visitatori, coinvolti in prima persona dalle installazioni di Meneghetti, e ripercorrere le tappe dell'evento.
Grazie ai comunicati stampa relativi alle inaugarazioni delle 4 mostre ricreiamo un cammino virtuale attravarso le 4 importanti sedi espositive:
1] COMPLESSO MONUMENTALE DI SANTO SPIRITO IN SAXIA - CORSIA SISTINA [168]
Ha dell'incredibile quello che è successo il 20 aprile all'inaugurazione della prima delle quattro mostre romane a cura di Achille Bonito Oliva, dedicate a Renato Meneghetti.
Sotto gli occhi increduli di Achille Bonito Oliva e Claudio Strinati dopo la lunga e interessantissima conferenza stampa a loro cura, il pubblico intervenuto in massa per l'inaugurazione ha interpretato alla lettera la didascalia dell'opera CLANDESTINE - INDIFFERENCE [169]: "Ovviamente l'artista si assume tutte le responsabilità ed i costi di produzione delle sculture che sono da considerarsi a perdere, da rompere, da rubare da parte del pubblico", e ha preso d'assalto le centinaia di teste sparse al suolo sotto al videoart "CLANDESTINE" che formava l'installazione con le teste di ceramica di "INDIFFERENCE" rubandole, prendendone a man bassa, anche quattro per volta e per persona, rubandole, chiedendole, chiedendo la firma dell'artista che, bontà sua, la concedeva frastornato com'era, soprattutto da tanta partecipazione da parte del pubblico che, con gusto e non per errore o per "INDIFFERENZA", oltre che prenderle le rompeva prendendole a calci scattando foto ricordo. Ne sono state rubate, chieste e rotte oltre 700 con grande soddisfazione di Meneghetti.
Di contro, molto compiti gli ospiti della cena per il 50° anno di costituzione della Corte Costituzionale: i 500 (cinquecento) ospiti guidati dal Presidente della Corte e neo Presidente del Senato Franco Marini, dal Senatore Giulio Andreotti affiancato dall'Onorevole Casini, dall' Onorevole Amato, dal Presidente dell' Antimafia Onorevole Grasso e da tanti altri altrettanto autorevoli personaggi politici oltre che da circa 100 Ambasciatori provenienti da tutto il mondo, hanno visitato la mostra gustando ammirati un cocktail tra le opere.
Moltissimi i commenti positivi e grande la curiosità sull'autore di queste opere ritenute interessantissime da tutti i 500 intervenuti.
Così anche per la seconda visita in massa alla mostra al Santo Spirito in Sassia; 100 persone in visita di gruppo tra le quali: l' Onorevole Donat Catten; il Presidente Emilio Colombo, l' ex Ministro degli Esteri.
2] SALA 1 - SCALA SANTA (SAN GIOVANNI IN LATERANO) [170]
Con una magnifica introduzione carica di misticismo Don Giuseppe Billi curatore del Vaticano e della CEI (Conferenza Episcopale ItalianA] ha inaugurato il 21/04/06 a Sala 1 la seconda mostra romana di Renato Meneghetti.
La mostra dal titolo Eghènetai [171] così si presentava: Buio, non "ombra". Luce. Nel buio tunnel, dal nulla al tutto. Dal buio alla luce.
Lastre sospese nello spazio pesante di una cripta, deformate da immagini crude, come partecipi a un rito solenne che evoca il Sacrificio, Catarsi e dolore ancora vivo nell'urlo, muto, dell'uomo: Eghènetai! Le opere sono composte da referti radiografici ripresi ad alcol e compressi fra lastre di plexiglas. Un percorso, dal caos - dolore - confusione spirituale - falsi miti alla luce: dal buio iniziale all' accecante luce finale, dopo la folgorazione, il sacrificio attraverso il quale sbocciano la creatività, la fede, la poesia. Meneghetti ha sapientemente mixato musiche che suscitano grandissima emozione in accompagnamento alle installazioni riuscendo a creare nel visitatore sensazioni da "pelle d'oca" rendendo così "potente" la più semplice delle quattro mostre. L'installazione per motivi tecnici, è stata ridotta a meno di un quarto di quello che Meneghetti aveva progettato (45 lastre sospese contro le 150 previste) cosichè il buio tunnel, la selva di lastre, si sono ridotti a un percorso scabro e ciononostante l'effetto e le emozioni che suscita l'opera sono indescrivibili: bisogna entrare ed arrivare alla cappella di luce dove avviene la catarsi, la resurrezione, per capire, per rendersi conto di quanto qui sostenuto!
3] MUSEO NAZIONALE DI PALAZZO VENEZIA [172]
Anche in questa sede si è ripetuto il rito di "rottura e trafugamento delle teste dalla installazione "Clandestine - Indifference" così come successo all'inaugurazione al Santo Spirito in Sassia. Però in questa sede, che evidentemente incute rispetto, nonostante la partecipazione attiva del pubblico sia stata molto alta come sempre, il numero di opere, le teste rotte, rubate, firmate sono state solamente 300 (trecento) portando così a 1000 (mille) il totale massacrato dall'indifferenza degli individui del terzo millennio.
E' incredibile l'emozione che si prova entrando nella Sala Regia e Sala delle Battaglie; e questo deve essere capitato anche al disgraziato che si è sentito arrivare non so quale impulso che lo ha spinto ad aggredire il cervello gonfiabile "OPTIONAL" [173] al quale con un taglierino o altro ha provocato un taglio di oltre un metro danneggiando seriamente l'installazione. "OPTIONAL" non è la PIETA' di Michelangelo nè il DAVID di Donatello e Meneghetti non è Michelangelo né Donatello ma l'opera è stata oggetto di uno sconsiderato atto vandalico.
4] ARCHIVIO CENTRALE DELLO STATO [174]
All'Archivio Centrale dello Stato si chiuderà l'evento romano delle quattro mostre di Renato Meneghetti a cura di Achille Bonito Oliva ed è stato ancora una volta il famoso critico ad accogliere la stampa e gli invitati.
La sezione, conclude il percorso espositivo presentando opere inedite, non esposte nelle altre sedi. Non avevamo ancora visto le sezioni di scultura e pittura di Meneghetti. Abbiamo visto in assoluta anteprima le opere del ciclo di sculture I MY SELF IN THE ART SYSTEM [175] composto da quattro figure umane a grandezza naturale assolutamente uguali tra loro ma che vivono quattro situazioni diverse strettamente legate alla sofferenza.
Decisamente sconcertati i circa 500 intervenuti all'inaugurazione di fronte al corpo nudo di Meneghetti moltiplicato per quattro, che privo di veli esibisce il proprio sesso senza pudore alcuno. Ci dice l'artista: "Sto correndo un grosso rischio perché il tema della nudità, con tutte le implicazioni religiose, mitologiche, psicologiche, filosofiche, sociali, ecc. se visto in modo superficiale si trasforma con facilità in altro di esecrabile."
In questo caso però l'esibizione si trasforma in sensibilità, quindi appropriazione, ma appropriazione intima, segreta, profonda, assoluta del mio dolore e, di conseguenza, conoscenza solitaria e unica di tale dolore di artista. L'abbandono mostra una resa incondizionata di fronte all'inutile cercare terreno, è la castrazione necessaria [176] per divenire altro. L'arco isterico [177] evoca la situazione dell'artista nel rapporto con il contemporaneo sistema dell'arte. Dietro la teatralità, la simulazione e la provocazione, si svolge il dramma autentico di chi tenta inutilmente di "essere" di divenire.
Ecco allora l'uomo appeso per i testicoli che si trasforma in Icaro [178] , e poi nell'uomo di Vitruvio [179] così caro a Leonardo in una crocifissione estremamente laica e quindi inconsueta, e poi ancora nell'isterico che sul tavolaccio dello psichiatra forma l'estremo arco dell'isteria.
Poi una sezione di pittura con circa 60 opere dell'ormai noto ciclo delle Radiografie.
E i "Paralleli Vertebrali", [180] grandi ceramiche raffiguranti una foresta di palme pietrificate che ricordano la colonna vertebrale umana. La struttura portante del corpo, la catena delle vertebre evoca un parallelo tra colonna e pianta creando immagini ora di oasi pietrificate dietro le quali muovono radiografie di anatomie umane, ora colonne di funo e camini che riportano la memoria cruda e immediata di pire sacrificali e dei forni di Dachau.
E ancora la videoart in installazione con "AN INVASION OF A PRIVACY INVADED". Spostando l'attenzione dell'opera ormai nota delle radiografie del corpo umano alle radiografie di oggetti, l'artista denuncia la violazione della privacy compiuta dalle forze dell'ordine pubblico con i controlli a raggi X negli aeroporti: la personalità dell'individuo, i suoi vizi, le sue passioni vengono messe a nudo e diventano di dominio pubblico. L'artista viola a sua volta la privacy delle forze di Polizia filmando i monitor dei controlli e riviola la privacy del cittadino.
Anche il prospetto monumentale dell'edificio è diventato superficie espositiva, infatti nei quattro altissimi pennoni normalmente dedicati alle bandiere, sono issati enormi (20 metri) drappi raffiguranti opere del maestro. [181]
POST- ROMA
Dopo l'imponente evento di Roma Meneghetti, non appagato dall'enorme successo, è già all'opera. Fucina perennemente in funzione, vulcano in continua eruzione, è nuovamente avviato verso il prossimo evento che come sempre sarà colossale. Vedono la luce così nuove opere di pittura, di installazione, di scultura. Nasce un ciclo di forte denuncia alla pedofilia intitolato "Il Silenzio degli Innocenti": ecco allora un neonato crocifisso o gettato in un cassonetto della spazzatura... e che altro ci riserva? La video-arte sempre più presente. Nascono "Goddamn'" [182] e "Storie Intime" [183]
Ma non gli basta il presente e il futuro vuole dare nuova vita al passato e convinto com'è che 30 anni fa "Divergenze Parallele" e "Insania" non siano stati compresi a sufficienza, riedita in forma di video il già famoso ma non abbastanza per lui Insania, e dà corso al restauro della ormai rovinata pellicola di "Divergenze Parallele".
Tutto questo nasce dalla fervida mente di Meneghetti pittore, anima di ogni sua opera. |
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